A luglio l’Italia è stato l’unico Paese dell’Eurozona a registrare un aumento rilevante della disoccupazione: +0,3%. La notizia del “record” arriva dall’Ocse, anche se il dato sul rimbalzo, che ha riportato il tasso di disoccupazione nazionale al 12,6% contro l’11,5% medio dell’unione monetaria, è stato diffuso dall’Istat a fine agosto. Non solo: l’organizzazione parigina, da cui pochi giorni fa è arrivata una descrizione poco lusinghiera del mercato del lavoro italiano, torna anche a sottolineare che nel nostro Paese resta “eccezionalmente alta”, al 42,9%, la disoccupazione giovanile. Eppure martedì il ministero del Lavoro ha fatto sapere che, in base ai dati del “sistema informativo delle comunicazioni obbligatorie”, nel periodo aprile-giugno sono stati avviati “2.651.648 nuovi rapporti di lavoro, 80.590 in più rispetto al secondo trimestre 2013, +3,1%”. Mentre “scendono dell’8,6% i licenziamenti e del 26,8% i posti di lavoro persi per cessazione di attività”. La spiegazione è semplice: in questo caso ad essere contati sono i contratti, non i lavoratori. E la maggior parte delle “attivazioni” si riferisce a contratti a tempo determinato, anche di durata brevissima. Di conseguenza una persona può averne firmato, nel corso di un trimestre, più di uno. Nello specifico, i dati del ministero guidato da Giuliano Poletti mostrano che il “numero medio di attivazioni” è di 1,49 per ogni lavoratore.
La nota del Lavoro informa poi che è in aumento “il numero dei contratti avviati a tempo indeterminato (+1,4%, pari a 5.416 unità), dei contratti a tempo determinato (+3,9% pari a 68.537 unità) e dell’apprendistato (+16% pari a 11.395 nuove attivazioni) mentre restano sostanzialmente invariate le collaborazioni”. Ma “crescono lievemente”, di 7.176 unità, anche “i rapporti di lavoro cessati”, che toccano quota 2.430.187. E’
Secondo l’Istat, che non conta i contratti ma i lavoratori, nel secondo trimestre gli occupati non sono aumentati, ma sono anzi scesi di 89mila unità rispetto allo stesso periodo del 2013 soprattutto per effetto dell’emorragia di dipendenti a tempo indeterminato (-57mila). Al contrario crescono quelli a termine e i part time involontari, cioè i lavoratori che accettano un orario ridotto perché non trovano di meglio. Ed è proprio qui la spiegazione della divergenza tra i dati: quelli del ministero