“La pace e la prosperità che godiamo oggi è il frutto dell’eroico sacrificio di tutti coloro che sono morti in guerra”. “La pace e la prosperità di cui godiamo oggi è il frutto dell’incessante sforzo compiuto dal nostro popolo nel dopoguerra”. L’occasione è la stessa, la commemorazione della sconfitta del Giappone nella II guerra mondiale, o, come la chiamano i giapponesi, della “Grande Guerra del Pacifico”. La prima l’ha pronunciata Shinzo Abe, che pur essendosi astenuto quest’anno dalla provocatoria visita al Tempio Yasukuni (dove vengono venerati gli spiriti dei caduti per la patria, criminali di guerra compresi) ha voluto puntare ancora una volta sulla retorica revancista, la seconda, certamente più condivisibile, l’Imperatore Akihito. È la prima volta che le più alte cariche dello stato, premier ed imperatore, prendono le distanze così nettamente. E la cosa, in patria e all’estero (Usa, Cina e Corea, soprattutto) non è passata sotto silenzio.
Dopo le rovine della II guerra mondiale il becero nazionalismo sembrava definitivamente debellato. Popoli e leader democraticamente eletti sembravano averne avuto abbastanza e si lanciarono, sia a livello nazionale che regionale (all’epoca non si parlava ancora di globalizzazione) verso forme di convivenza più avanzate: integrazione, cooperazione, solidarietà. Penso al progetto europeo, che nonostante tutti i suoi difetti è ancora il nostro fiore all’occhiello ma anche al faticosamente raggiunto, e divenuto poi un gioiello che tutto il mondo ci invidia, accordo italo-austriaco per l’Alto Adige/Sud Tyrol. Modello che a suo tempo è stato tradotto perfino in cinese e utilizzato dal Dalai Lama come base di discussione nelle difficili trattative con Pechino.
Ora siamo daccapo. Il mondo sembra essere tornato, come ha avuto la faccia tosta di ricordare l’anno scorso il premier giapponese Shinzo Abe (uno dei più irresponsabili “provocatori” attualmente in giro) come l’Europa ante-Sarajevo. In effetti quello che sta succedendo in Europa, continente sempre meno importante e determinante per gli equilibri globali, è davvero nulla rispetto a quello che potrebbe succedere in Asia – la regione destinata a contare sempre di più. Dove tutta una serie di “nodi” che nessun leader locale ha mai avuto il coraggio di risolvere (tranne rarissime eccezioni, peraltro sabotate dagli Stati Uniti che hanno sempre preferito un continente diviso) e che ora stanno pericolosamente riemergendo. Parlo soprattutto della penisola Coreana, della Cina e del Giappone. Paesi dove i rispettivi leader stanno di nuovo utilizzando il nazionalismo, sia pur con toni e salse diverse, non tanto per tutelare gli interessi dei loro popoli rivendicandone il giusto ruolo internazionale, quanto per distrarne l’attenzione dai loro errori (caso giapponese) o giustificare l’indispensabilità di mantenere una struttura di potere (caso cinese) obiettivamente incompatibile con l’era contemporanea.
Non è ancora chiaro a cosa stia puntando, a livello internazionale, il governo Abe, di cui la maggior parte dei componenti milita nelle più conservatrici associazioni del paese (il ministro della Sanità ne ha fondata una che sostiene che l’autismo sia una malattia “sociale” provocata dall’assenza di disciplina in famiglia) e che con il recente rimpasto ha imbarcato addirittura due ministri (di cui una donna) con preoccupanti simpatie neonaziste. Quello che è certo è che sta scontentando (e preoccupando) un po’ tutti. Usa compresi. E questo nonostante nei pochi mesi che ha governato abbia fedelmente eseguito politiche molto care agli Usa ma da sempre osteggiate in Giappone, e non solo dall’opposizione socialcomunista, anche dal suo suo stesso partito, che nel dopoguerra ha governato pressochè ininterrottamente. Parliamo della legge sul segreto di stato (fortemente voluta da Washington), dell’impegno a chiudere al più presto la trattativa TTP (l’accordo di interscambio commerciale che aprirà definitivamente il mercato agricolo giapponese) e la cosiddetta “reinterpretazione” dell’art.9 della Costituzione. L’art.9 è molto chiaro: impedisce formalmente al Giappone di possedere forze armate di alcun genere, ed esclude addirittura il diritto di belligeranza. All’epoca gli americani (che scrissero ed imposero al Giappone la nuova Costituzione) erano talmente sconvolti da quanto i giapponesi erano riusciti a combinare durante la guerra che vollero escludere ogni possibilità di ritrovarseli davanti con un’arma in mano. Non bisogna essere degli esperti costituzionalisti per capire che escludere il diritto di belligeranza significa, di fatto, imporre ad un popolo di non reagire nemmeno in caso di attacco, di invasione esterna.
Gli Usa ovviamente si resero conto quasi subito che sarebbe stato un po’ troppo rischioso (ed oneroso) dover provvedere in toto alla difesa del Giappone, e fin dal 1952 consentirono la Costituzione delle cosiddette forze di Autodifesa: vere e proprie forze armate (oltre 300 mila uomini) che nel recente passato sono state anche inviate all’estero, per operazioni di pace (Iraq, Afghanistan etc). Abe ha tentato (per ora senza riuscirci) di “sanare” questa perdurante violazione cercando di modificare il testo costituzionale. Per ora non ci è riuscito, ma quanto meno ha “regalato” agli Usa una “reinterpretazione ufficiale”. D’ora in poi, il Giappone potrà intervenire anche militarmente per “difendere” i suoi interessi, cioè quelli degli Usa. Dopo tutti questi “favori”, è dunque legittima la delusione di Abe nei confronti degli Usa, che da sempre critica duramente la sua retorica revisionista e le sue provocazioni contro Cina e Corea.
Di tutto ciò ovviamente approfittano la Cina e la Corea (sia del Sud che del Nord). Abe è l’unico premier recente del Giappone non solo a non essere stato ricevuto (o ricevere) i leader vicini, ma addirittura a non parlarci al telefono. Paradossalmente – e per puri motivi di immagine interna – è più probabile che Abe compia un “blitz” a Pyongyang (come fece a suo tempo il suo primo mentore, l’ex premier Junichiro Koizumi) che venga ricevuto a Seoul o Pechino. Del resto, sia Corea che Cina hanno a loro volta intensificato la loro retorica anti giapponese (un tantino più giustificata, dal punto di vista storico). Pechino ha addirittura istituito, a distanza di 69 anni, una nuova festa nazionale. Il 3 settembre, I cinesi hanno infatti festeggiato la vittoria contro gli aggressori giapponesi. E alla cerimonia, trasmessa con una lunga diretta Tv, hanno partecipato in pompa magna tutti i membri del Comitato Permanente del Politburo, Xi Jinpin in testa.
Curioso – ma neanche tanto – che anche Xi Jinpin, nel suo discorso ufficiale, abbia citato l’eroico sacrificio del popolo cinese, capace di respingere l’aggressione giapponese, come base dell’attuale prosperità. E anche della necessità di mantenere l’attuale struttura politico sociale militare della Cina, nel caso il Giappone decida di ripetere I suoi errori. Alla fine, Abe e Xi Jinpin stanno dandosi una mano l’un altro. Ma il tutto avviene sul filo del rasoio.