In Italia, dopo lo stop per due anni consecutivi dell’Heineken Jammin Festival, solo Rock in Idro e l’Arezzo Wave possono vantare grandi numeri, che però impallidiscono se paragonati ai “concorrenti” internazionali: quest’anno all’Arezzo Wave c’erano 20 mila persone, contro le 100 mila che hanno affollato il Sonar; al Rock in Idro erano in 40 mila, poca cosa rispetto agli scatenati 120 mila di Benicàssim e ai 400 mila dello Sziget. Che l’Italia riesca a offrire tanti ottimi festival di piccole e medie dimensioni ma che non sia mai stato un paese per grandissimi eventi musicali è un dato di fatto. Al contrario di quello che si potrebbe credere, però, gli ostacoli di cui secondo i promoter come Alex Fabbro di Rock in Idro bisogna tener conto per realizzare un evento in grado di richiamare centinaia di migliaia di persone sono superabili anche in Italia. Tutti tranne uno. Andiamo per esclusione:
1) Organizzazione. Per mettere in piedi un grande festival serve una macchina organizzativa che possa funzionare a pieno regime, senza subire ritardi. Gli spagnoli non hanno rivali in questo, ma sarebbe folle pensare che in Italia non si potrebbe fare lo stesso o addirittura meglio. Visione, capacità organizzativa e grandi spazi non ci sono mai mancati.
2) Sponsor e paura del flop. Uno studio della Oxford Economics del 2013 ha messo nero su bianco che l’anno precedente 6,5 milioni di persone da tutta Europa hanno preso parte a eventi musicali in Inghilterra, generando un giro d’affari di 2,2 miliardi di sterline. Bisogna ricordare poi che lo scorso luglio a Benicàssim, il 90% del pubblico era formato da inglesi, irlandesi e spagnoli. Vale a dire: se si riesce a mettere su un’offerta musicale valida, gli stranieri, inglesi e spagnoli su tutti, arrivano come api sui fiori. Lo hanno capito bene l’Olanda, all’Amsterdam Dance Event del prossimo ottobre ci saranno più di 2 mila artisti, e la Serbia, che con l’Exit ha trasformato Novi Sad, una bella ma anonima città sulle rive del Danubio, nel must dei festival musicali europei.
3) Burocrazia. Qui casca l’asino, ma neanche tanto. Senza dubbio lacci e lacciuoli sono un grande intralcio per chi mette idee e soldi al servizio di un grande evento musicale in Italia, ma è anche vero che, quando c’è la volontà, le cose alla fine si fanno. Basti pensare al successo di Campovolo nel 2005, poi ripetuto nel 2011, quando 180 mila persone (100 mila nel bis) affollarono l’Aeroporto di Reggio Emilia per ascoltare Luciano Ligabue.
Non resta quindi da pensare che il vero ostacolo all’organizzazione in Italia di un grande festival musicale di caratura internazionale sia attribuibile perlopiù a un fattore culturale. E non si parla solo di cultura musicale, ma di qualcosa di più ampio che coinvolge le istituzioni, soprattutto quelle locali. Emblematico in questo senso è quanto accaduto al Rototom. Il più importante evento reggae d’Europa si teneva all’inizio ad Osoppo (Udine); poi nel 2009 gli organizzatori si videro recapitare un avviso di garanzia per istigazione all’uso di stupefacenti, perché tra i partecipanti c’era chi faceva uso di marijuana. Dopo giorni di dubbi e paure, il cofondatore Claudio Giust e la sua squadra friulana decisero di fare le valigie e volare in Spagna, a Benicàssim, dove furono accolti con tutti gli onori del caso. Oggi il Rototom, che ha pure ricevuto un patrocinio Unesco, conta ogni anno 250 mila partecipanti, più del doppio di quelli che affollavano il parco del Rivellino, l’ex location del festival. Che, nel frattempo, ha continuato in questi anni a ricevere finanziamenti per 600 mila euro dalla regione Friuli. Il risultato è una grande area verde perfettamente funzionante, usata prima per il pascolo delle vacche e ora neanche più per quello.
Sembra quasi di rivedere Motel Woodstock, il film che narra la storia di Elliot Tiber, il ragazzo che ebbe un ruolo fondamentale nel riuscire a portare il festival di Woodstock a Bethel, il paesino in cui viveva. Per Tiber non fu facile, ma alla fine quello che sarebbe diventato il più leggendario festival della storia si fece. Dalla sua Tiber aveva un privilegio: era presidente della Camera di Commercio di Bethel. E questo, anche in America, è sempre un bel vantaggio. Non ce l’avrebbe fatta, però, senza un sistema che iniettasse soldi e fiducia in quello che, all’inizio, sembrava a tutti solo un grandissimo rischio. Ma la cultura del rischio e del fare largo alle idee dei giovani non è mai veramente stata nel Dna del nostro paese.