In 30 anni di attività, Elio Collovà ha gestito molte aziende confiscate ai clan. Oggi ricostruisce quell'esperienza in un volume sui i limiti della normativa che spesso lascia fallire aziende potenzialmente sane se riportate nella legalità
“Ci sono varie criticità a livello normativo” spiega Collovà a ilfattoquotidiano.it, “una su tutte la mancata tutela dei terzi: dopo la confisca infatti vengono sospesi i pagamenti verso i creditori dell’azienda, con grave danno per la salute dell’economia”. Il problema principale, secondo l’amministratore giudiziario, è nella natura liquidatoria delle leggi che regolano la gestione dei beni: dopo la confisca in pratica lo Stato punta a svuotare le aziende confiscate ai boss. “Questo perché lo Stato rinuncia a priori a fare impresa e l’attività dell’amministratore giudiziario viene paragonata a quello del curatore fallimentare: invece l’attività giudiziaria dovrebbe continuare ad amministrare i beni, per garantire se non altro l’economia, restituendo alla collettività quanto sottratto dalle mafie, che era poi l’intento originario”.
“Con la mafia si lavora, con lo Stato no” gridavano negli anni 80 gli operai delle prime aziende confiscate ai boss: oggi, a sentire Collovà, la situazione non è poi tanto diversa. “È più o meno la stessa frase che mi è stata rivolta da un sindacalista appena due anni fa, quando ero stato nominato amministratore di una sala Bingo confiscata al boss Lo Piccolo”. Il commercialista fa una distinzione netta sulla natura delle aziende confiscate: da una parte ci sono quelle che non potrebbero stare sul mercato senza l’utilizzo di mezzi illegali. “Penso per esempio alla Central Gas che emetteva assegni post datati di due miliardi e mezzo, alla Calcestruzzi Mazzara del boss Mariano Agate o alla stessa Sala Bingo che fungeva soprattutto da lavatrice di denaro sporco: ovviamente dopo la confisca sono scomparse le persone che venivano a giocare ventimila euro in contanti tutti i giorni”.
Dall’altra però ci sono anche le aziende che potrebbero continuare a produrre ricchezza. “È il caso delle aziende confiscate all’imprenditore Pietro Di Vincenzo: quando sono entrato nel 2006 mi sono ritrovato i dipendenti contro perché vedevano nell’amministratore giudiziario colui che avrebbe fatto scomparire l’azienda. Poi hanno capito che l’azienda, riportata nella legalità avrebbe continuato a lavorare: e in effetti potrebbero esserci enormi potenzialità di sviluppo, potenzialità che però non potranno essere sfruttate”. Il motivo è tutto da ricercare sul piano legislativo. “Paradossalmente – continua il professionista – era meglio con la vecchia legge, mentre oggi le norme non sono adeguate. Prendiamo l’Agenzia nazionale per i beni confiscati: poteva essere un’intuizione meravigliosa, se solo fosse stata strutturata secondo quelli che erano gli scopi iniziali, con norme adeguate su destinazione dei beni. Invece oggi l’agenzia non ha personale proprio, ma solo dipendenti distaccati da altri dipartimenti che quindi cambiano continuamente”.
Negli ultimi dieci anni sono state diverse sono state le commissioni parlamentari che hanno preso in esame la materia della confisca. “I provvedimenti che creano strumenti efficaci però sono ben pochi: questo perché non vengono mai ascoltate le voci degli amministratori giudiziari che sono quelli che lavorano in prima linea”. Il bilancio tracciato dal libro di Collovà alla fine è grigio: “Non c’è la volontà politica di creare le risorse per combattere finanziariamente Cosa Nostra: se su dieci aziende confiscate, nove falliscono, che segnale lancia lo Stato?”
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