Musica

Fedez ‘Pop-hoolista’, il nuovo album: “Populista, hooligan, diversamente rap”

A pochi giorni dal debutto come giudice di X Factor, l'artista racconta l'ultimo disco in uscita il 30 settembre. Un’opera coraggiosa in cui si fanni nomi e cognomi, tra lettere a Barbara D’Urso e cazzotti al clero. Tanti anche i duetti, con Elisa, Noemi e J-Ax, per descrive un Paese "dove la gente non arriva a fine mese ma si preoccupa che la batteria dello iPhone arrivi a fine giornata”

di Andrea Scanzi

Va ascoltato con attenzione Pop-hoolista, il nuovo concept album (20 brani) di Fedez in uscita il 30 settembre. Un’opera coraggiosa e ambiziosa, in cui un artista fa nomi e cognomi e si scaglia – senza ipocrisie e con ispirazione – contro un potere tragicomico e una società prossima al rincoglionimento. Ironie e scudisciate, lettere a Barbara D’Urso e cazzotti al clero, duetti (Elisa, Malika Ayane, Noemi, Francesca Michielin, J-Ax) e stereotipi scorticati, giochi di parole e una riflessione insistita su un paese “dove la gente non arriva a fine mese ma si preoccupa che la batteria dello iPhone arrivi a fine giornata”. 

Perché questo titolo?
È riferito tanto a populista quanto a hooligan del rap. Volevo rimarcare il mio essere diversamente rapper, affrontando tematiche politiche e sociali con leggerezza. Ormai in Italia sono “populisti” tutti coloro che non accettano ciò che impone la maggioranza. Ricordo una frase di Casaleggio: “Sono fiero di essere populista”. Anch’io.

“Diversamente rapper”: un’autodefinizione che usa spesso.
Il rap italiano è una subcultura che usa canoni estetici e stilistici imposti: da palestra del libero pensiero è diventata un Rotary Club. Pur facendo la gavetta e partendo dai centri sociali, non ho mai seguito le regole. Quindi passo per pecora nera, anche solo perché oso avere influenze pop.

Ieri Berlusconi, oggi Renzi.
Con il passare del tempo sono diventato più realista e più rassegnato. L’Italia resta una penisola che non c’è. Da ragazzino volevo cambiare il mondo, a 25 anni so che non è possibile. Mi limito a scattare delle istantanee. Ho perso le speranze anch’io.

Ti definiranno grillino.
È già successo e accadrà. In Italia abbiamo bisogno di etichettare e “grillino” è diventato un epiteto negativo a prescindere. Io condivido alcune cose dei 5 Stelle e altre no, li ho votati ma non sono un integralista. Di sicuro rappresentano la scelta migliore, sia perché sono veramente nuovi e sia perché sono l’unica scelta che abbiamo.

I rapper di oggi sono i cantautori di ieri?
Senza dubbio. Il rap non innova, ma rinnova. Prende tutto quello che c’è, anche il teatro canzone di Gaber, e lo rinnova. Nei dischi precedenti ricevevo la base e ci scrivevo di getto i testi, in Pop-hoolista ho fatto il contrario. Per i monologhi, che sostituiscono il classico “bridge” e ti permettono un sunto della situazione senza dover rispettare la rima, ho lavorato con Matteo Grandi. L’ho conosciuto su Twitter e mi è piaciuta la sua ironia. Siamo diventati amici, è diventato il mio psicologo artistico e sarà uno dei miei autori a X Factor. 

 

La chiameranno “venduto”. E non sarà la prima volta.
Ho vissuto abbastanza male il mio imborghesimento artistico. L’underground non ti odia quando inizi a vendere, ma quando ti iniziano a comprare. Negli Stati Uniti è molto diverso, lì l’obiettivo è fare più soldi di tutti. In Italia no, il successo lo devi tenere nascosto.

Le riesce?
Sì e no. È un lavoro e lo devi fare, altrimenti ti scrivi i pezzi in cameretta e te ne rimani lì. Voglio allargare il mio pubblico. X Factor è una scatola mainstream, ma io sono molto diverso. Parto come l’anello debole, sono un rapper e vengo percepito dal grande pubblico come un teen-idol: un pupazzone di Walt Disney. Mi sono messo in gioco e so che, non appena indovinerò un congiuntivo, il pubblico si stupirà, farà “uoooh!” e penserà che forse che non sono un narcotrafficante ignorante pieno di tatuaggi. È una sfida che mi stimola molto.

In Pop-hoolista se la prende con il potere, ma anche con la pigrizia mentale degli italiani. Chi ha più colpe?
Gli italiani. Viviamo in democrazia e siamo noi a scegliere i governanti. Nel momento in cui la popolazione si dimentica del potere che ha, i risultati sono disastrosi come accade in Italia.

Che effetto fa dialogare in tivù con un intellettuale contemporaneo come Giovanardi?
Nessun rapper, da noi, si è mai esposto come me. Neanche sentivo troppo vicino il tema, perché non consumo cannabis. Potevo perderci la faccia. Volevo fare un confronto e ho trovato uno che lanciava slogan e inseguiva la caciara. Giovanardi si è però dimenticato che io sono un rapper e nella caciara sono molto più bravo di lui.

Le ha dedicato anche dei versi in rima, peraltro indimenticabili.
Prima di conoscerlo ad Anno Uno non sapevo se c’era o ci faceva. In realtà Giovanardi è davvero convinto di quello che dice. Ci crede proprio. Ha un’idea – sbagliatissima – e la difende. Di quella puntata mi hanno colpito ancora di più molti giovani tra il pubblico. C’era anche qualcuno di Casa Pound. Sembravano rimasti agli Anni Cinquanta.

Perché ha deciso di dare l’anteprima al Fatto?
Siete stati il primo giornale autofinanziato, senza inquinamenti partitici. Una delle prime forme di giornalismo vero. Sono molto orgoglioso di essere dentro le vostre pagine: so che suona come una enorme leccata di culo, ma è quello che penso.

Da Il Fatto Quotidiano dell’11 settembre 2014 
Video di Andrea Scanzi, Alessandro Madron e Francesca Martelli  

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