Musica

Londra, Ray Davies chiude il suo breve tour alla Royal Festival Hall

L'ex leader dei Kinks, smentite le notizie riguardo a un'eventuale reunion della band, propone un live fatto di tenacia ed estrema energia, dove la sua voce tende ancora di più a cedere alle stonature. E il bello sembra essere tutto lì

di Chiara Felice

Si chiude alla Royal Festival Hall di Londra il breve tour di Ray Davies, nell’ultimo mese protagonista di notizie non proprio veritiere riguardo l’eventuale reunion dei suoi Kinks. Il mensile inglese Mojo ha infatti riportato un’affermazione di Davies (“nel 2015 i Kinks si riuniranno con o senza Dave Davies”), subito smentita dal musicista che chiude la questione chiarendo che non ci sarà nessuna reunion che non contempli entrambi i fratelli Davies. Momentaneamente archiviata la questione Kinks, Ray Davies – a pochi passi da quella Waterloo Station per sempre immortalata in “Waterloo Sunset” – si appresta a riconfermare la sua grandezza con un concerto di due ore dove ripercorrerà una piccola parte della storia della sua band: “You Really Got Me” è il titolo della serata, e non poteva essere altrimenti. Figli della Londra del dopoguerra, i Kinks sono ancora oggi troppo poco conosciuti, soprattutto se si pensa alla profonda e trasversale influenza che la loro musica avrebbe avuto sulla formazione musicale delle successive generazioni.

Tra i loro coetanei persino il trittico Beatles, Who, Rolling Stones subì l’influenza di una band abituata ad anticipare la moda, per poi abbandonarla non appena diventava tale. “You Really Got Me” è solo uno degli esempi più classici, una linea di demarcazione tra ciò che era stato – e vale per gli stessi Kinks, reduci da un singolo estremamente in linea con i tempi, “You Still Want Me – e ciò che sarebbe arrivato in seguito: un nuovo approccio alla chitarra verso il quale in tanti avrebbero continuano a pagare pegno. Non solo Van Halen che ne avrebbe poi fatto una cover, ma anche il coetaneo dei fratelli Davies, Pete Townshend. La maestria nel costruire riff essenziali ed efficaci, graffianti come quello di “You Really Got Me” e “All Day and All of the Night”, entrambi rock ‘n’roll fino al midollo, come quello di “Till the End of the Day”. Da un’altra prospettiva c’è la successione di note discendenti che apre e caratterizza “Sunny Afternoon”, oppure la nota ostinata che fa da perno alla costruzione di “Waterloo Sunset”.

I Kinks sono stati degli artigiani del rock’n’roll, capaci di cambiare registro con una facilità disarmante: malinconia, ribellione, disillusione e molte altre sfumature emotive sono state portate alla luce con un’imprescindibile dose di englishness e una vena teatrale pressoché unica. Ray Davies ha 70 anni e sul palco della Royal Festival Hall ripropone una piccola parte di questa storia, lo fa con tenacia ed estrema energia, la sua voce tende ancora di più a cedere alle stonature, ma il bello sembra essere tutto lì. Tutto in quel crescendo – punk nello spirito e nella voce – del ritornello di “I’m Not Like Everybody Else”, brano che verrà ripreso anche verso la fine del concerto ma che inizialmente completa un trittico esplosivo: “I Need You” e l’incedere Dylaniano di “Where Have All the Good Times Gone” gli aprono la strada. Ad un concerto del genere si fa davvero fatica a restare seduti, persino un pubblico inglese prevalentemente sopra i cinquant’anni trova difficoltà e resistere per una buona prima parte sembra già una fatica insostenibile.

Il riff iniziale di “All Day and All of the Night” è una carica esplosiva e rompe ogni argine: gli uomini della sicurezza non potranno fare niente di fronte ad un’intera fetta di pubblico che si appresta a raggiungere il palco e che resterà lì, in piedi, fino alla fine del concerto. Tra una “Dedicated Follower of Fashion” cantata per metà imitando Jonny Cash, e i racconti di Davies ad intervallare i brani, non mancano momenti di profonda emozione, come quando in “Days” la voce di Davies si fa incerta fino a vacillare e cedere alla commozione. Due ore volano via in un istante e i classici sembrano essere sempre troppo pochi: ai brani già citati si aggiungo ottime versioni di “Dead End Street”, “Tired of Waiting for You” e un’eccellente “20th Century Man”. Le assenze non potevano che essere troppe, una per tutte, l’amara e disillusa “Working at the Factory”: “All I lived for was to get out of the factory. Never wanted to be like everybody else, but now there are so many like me sitting on the shelf. They sold us a dream that in reality was just another factory”.

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