Gabriele Iacovino, coordinatore degli analisti del Centro Studi Internazionali, quale potrebbe essere il ruolo dell’Italia nella coalizione che affiancherà gli Stati Uniti nella lotta allo Stato Islamico?
“In questo momento la coalizione riveste un ruolo soprattutto politico, di affiancamento degli Usa e di legittimazione sul piano internazionale dell’intervento militare in Iraq e in Siria. Gli Stati che ne faranno parte devono ancora definire le modalità di partecipazione. Gli aerei utilizzati finora sono quelli statunitensi ed è poco prevedibile un intervento da parte dell’aviazione italiana, così come è poco prevedibile l’impiego delle nostre basi militari: sono troppo lontane dalle aree interessate dall’intervento e il loro utilizzo prevederebbe rifornimenti in volo per i velivoli impiegati. I caccia Usa, infatti, partono dalle portaerei americane presenti nel Golfo“.
L’escalation in Siria e Iraq mette l’Italia in pericolo?
“In questo momento la maggiore fonte di rischio per noi è la Libia, un paese fortemente instabile a brevissima distanza alle nostre coste è un problema di politica estera e di sicurezza. Per dare un’idea: non c’è differenza tra quello che sta accadendo in questi mesi in Libia e la situazione di caos che caratterizza da anni la Somalia“.
Per quale motivo il tema fa fatica a scalare posizioni nell’agenda della comunità internazionale?
“I leader degli Stati membri della Nato avrebbero dovuto discutere del tema nel vertice tenuto in Galles del 4 e 5 settembre. A causa, però delle pressioni esercitate da alcuni paesi membri, specie quelli dell’est Europa, la discussione si è focalizzata quasi esclusivamente sulla situazione di instabilità che caratterizza l’est dell’Ucraina con lo scontro tra Mosca e l’Unione Europea, oltre che ovviamente sulle misure da adottare per contrastare la diffusione dello Stato Islamico in Iraq e in Siria. La Nato, quindi, non considera la situazione libica di primaria importanza”.
Il flusso migratorio diretto verso le nostre coste resta fortissimo e le aziende italiane temono per i loro interessi nel paese. Quali sono le altre conseguenze di questa instabilità per l’Italia?
“Il pericolo maggiore è quello che la Libia cada nelle mani degli jihadisti. Non abbiamo a disposizione in questo momento elementi per parlare di una presenza dello Stato Islamico nel paese, ma abbiamo la certezza che, dopo l’intervento militare francese, formazioni jihadiste provenienti dal Mali si sono stabilite in vaste aree del sud, in quelle costiere, come anche nelle aree cittadine di Bengasi e Tripoli“.
Quindi si stanno verificando in Libia dinamiche simili a quelle che hanno portato alla diffusione dell’Isis in Iraq e Siria?
“Esatto. Ci troviamo di fronte ad un Paese incontrollabile, preda di milizie islamiche che da mesi combattono una guerra che ha fatto centinaia di vittime. Abbiamo visto come i jihadisti islamici abbiano una straordinaria capacità di colmare i vuoti che si creano nelle situazioni di forte instabilità: esempio lampante ne è la facilità con cui hanno approfittato del sanguinoso scontro tra sciiti e sunniti per prendere il controllo di una vasta area tra l’Iraq e la Siria. Una volta conquistato il territorio, il passo successivo è quello di prendere il controllo dei traffici illegali per creare fonti di autofinanziamento e imporre il loro controllo sul piano politico e sociale. La stessa situazione di guerra intestina permanente si sta verificando in Libia, uno Stato situato a pochi chilometri dalle nostre coste, ed è chiaro come ciò costituisca una seria minaccia alla sicurezza dell’Europa. Con un’aggravante in più: la Libia è un paese con il quale l’Italia ha da sempre rapporti privilegiati”.