E’ una tarda mattinata d’agosto e Rai Tre trasmette un monologo di Walter Chiari. Il programma è di quelli di una volta: bianco e nero, inquadratura fissa su chi racconta. Nessun orpello particolare, soltanto un sipario chiuso alle spalle, movimenti umani e quasi impercettibili del cameraman sull’attore che si rivolge al pubblico con semplicità.
Cinque minuti di monologo, forse meno.
La bravura di Walter Chiari è fuori discussione, ma ciò che cattura la mia attenzione è altro: posso guardare ed ascoltare una cosa con calma, non ci sono effetti speciali, movimenti di macchina stupefacenti, stacchi continui, dissolvenze, immagine doppia o tripla, slides, sovrascritte, lampeggi, loghi pubblicitari occulti e non, musiche invadenti, numeri a cui telefonare per dare un parere a pagamento, ecc…
Gli apparati serializzati per catturare a forza l’attenzione del telespettatore sono per cinque minuti sospesi, una piccola tregua da palinsesto estivo. Da quanto tempo non guardavo la tivù più di tre minuti di fila senza esserne obnubilato? Da quanto tempo non ascolto una persona senza una qualsiasi distrazione per più di tre minuti di fila? Fin qui niente di strano, la tivù, lo schermo nelle varie dimensioni tascabili, “il mondo in streaming“, basta spegnerlo o non accenderlo. Ma quanto il diktat della comunicazione nel concreto della nostra quotidianità aliena ciò che potremmo dire (o non dire) da ciò che ossessivamente va comunicato? Quanto non distinguiamo ciò che andrebbe ascoltato dal mare informe delle comunicazioni narcisistiche?
Quanto la nostra persona è subordinata agli stili comunicativi imperanti, all’idea dell’efficace comunicazione, alla persuasione di massa? Perché quando vedo il Presidente del Consiglio ho l’impressione di una spontaneità artefatta, riprodotta secondo un criterio da marketing della comunicazione, con quel piglio spavaldo di chi guarda in telecamera da troppo consumato attore? Non ne abbiamo avuto abbastanza?
Da bambino vedevo e sentivo Enrico Berlinguer: cos’è successo nel frattempo? E’ bastata l’innovazione tecnologica per una tale trasformazione antropologica della classe dirigente? Oggi si curano le apparenze perché da almeno vent’anni le parvenze sono la sostanza, disponiamo di una tecnica formidabile e alle sei del mattino deve partire il primo tweet. Look ricercati, fulmini verbali da hashtag, costruzione di concetti efficaci nella misura in cui risucchiano attenzione acritica, sintesi di realtà complesse del tutto desostanzializzate e che si riproducono ad ogni livello della comunicazione, trasversale ai diversi contesti: dal bar sport al convegno universitario, al salottino con gli amici è tutto un agitarsi per essere efficaci e convincere.
Tenere la gente “sul pezzo”, qualsiasi esso sia, costi quel che costi, sedurre, curare la presentazione, vendere cose/idee e aver consenso. Fossero almeno contraddizioni del dire e del fare che rimandano ad una realtà più convincente, complessa, multipla, e quindi molto umana. Invece, sono nella maggior parte dei casi furbe strategie elaborate dalla cinica comunicazione di massa.
Che importa la realtà, almeno quella che oggettivamente possiamo condividere, quella delimitata dall’esperienza del nostro corpo non smaterializzabile. Che importa, per esempio, dichiararsi di sinistra e fare una politica di destra (o viceversa), tanto tutto è melassa, tutto impiastriccia e confonde la memoria del villaggio globale, “non luogo” che appunto non esiste e ignora delle singolari vite di ciascuno, con la paradossale complicità di ciascuno. Astrarre dalle situazioni concrete, enunciare un immaginario consolatorio è lo squallido registro interpretativo di chi enfatizza, minimizza o racconta storie per farla franca, per creare illusioni, per dare a sé e ai propri sodali una professione pagata profumatamente. Per il potere, in ultima analisi. Quel che è detto è detto, quel che non è stato fatto sarà minimizzato, finirà nel dimenticatoio e, ahimè, con un po’ di efficace comunicazione, nuovo entusiastico consenso non mancherà.
Torno volentieri a Walter Chiari e al vecchio, rottamato e ingenuo stile televisivo. Mi strappa ancora un genuino sorriso e, per insospettabili vie, mi svela in filigrana la pessima messa in scena della comunicazione di massa imbracciata dalla politica, dalle istituzioni con sagacia stile brand management. E purtroppo constato (malgrado i trascorsi) come quella comunicazione astuta e pervicace infiltra la personale quotidianità, le idee, i comportamenti e le scelte.
Jerzy Grotoski raccomandava ai suoi attori: “Fingere ma non mentire”. Ai comunicatori di professione, ai politicanti, a coloro che di mestiere si occupano della cosa pubblica, di poltrone, “del sociale” e del loro futuro, raccomanderei almeno, se proprio non possono farne a meno, di mentire senza fingere.