Ancora una volta, ancora nell’Adriatico, il nostro mare diventa inospitale per le più antiche creature del Mediterraneo. Che cosa avviene? E’ possibile che le trasformazioni di cui è protagonista il mare (gran parte indotte da noi) lo rendano inospitale per i nostri simili più vicini? La frattura che stiamo provocando tra noi e la natura diviene davvero così insanabile? Il problema è che più mettiamo l’uomo al centro più ci allontaniamo da madre natura, più pensiamo di essere protagonisti dei cicli naturali più non riusciamo a comprenderli…
Uccidiamo d’anestetico un’orsa che difende i propri cuccioli, devastiamo l’Adriatico con le prospezioni petrolifere con potentissimi sonar e poi cosa attendiamo? Pensiamo davvero non vi debbano essere delle conseguenze? Non per noi, è vero, ma per i nostri figli sì…E allora cosa importa, lasciamogli le briciole… insegniamogli che la vita vera è quella a cui li abbiamo abituati, che un tonno è solo una scatoletta, e che un capodoglio o una balena è un disegno su un libro di fiabe. Togliamogli la gioia di vederlo affiorare dalle acque blu, togliamogli l’empatia di cui ciascun essere umano ha bisogno, togliamogli la felicità vera, insieme alla speranza.
L’unica speranza che possiamo dargli e conservagli la natura così com’è, la sua possibilità di rigenerarsi, a nulla varrà il resto. L’ennesimo spiaggiamento è un altro segnale, che forse rimarrà inascoltato. Io li ho visti morire sette capodogli del Gargano solo qualche anno fa (sette il numero ritorna) e queste le mie sensazioni, in uno stralcio del mio Com’è profondo il mare (Chiarelettere).
Non dimenticherò mai quel tanfo acre, dolciastro, come di olio rancido, che pizzica il naso e la gola, ti avvolge sino a impregnare i vestiti, a penetrarti nel corpo. Lo si riconosce anche se non lo si è mai sentito, perché in qualche modo fa parte di noi. È l’odore della carne in putrefazione. Ma non si può immaginare il fetore di quando ne vanno a male più di 120 tonnellate. Il vento prova a diradarlo, ma quello è persistente, non si può fuggire, ti segue a cento metri di distanza, ti rimane addosso, si conficca nel cervello, intacca i pensieri.
Né dimenticherò mai il respiro del «piccolo». Durante la prima notte di agonia riuscivo a percepirlo anche da lontano: affannoso, smozzicato, disperato nell’incessante ansimare, nel sibilo d’acqua salata emesso dalle narici. Le pinne non potevano più spingerlo, neppure la coda possente che batteva di tanto in tanto sulla battigia spazzando la schiuma. Il giovane capodoglio, il più piccolo dei sette spiaggiati sul Gargano, cercava l’acqua, il mare, il suo Mediterraneo, l’elemento naturale che l’aveva sempre sostenuto, liberato dalla gravità, da un peso ingombrante che ora lo schiacciava, gli incrinava le costole…
Certo le sue ossa sono flessibili, riescono a modellarsi, a sopportare la pressione sino a mille, duemila metri di profondità negli abissi, ma sulla costa no, l’atmosfera è un macigno.
Non possiamo ricordarlo ma tutti noi, prima di venire al mondo, eravamo nell’acqua, nel liquido amniotico, eppure, anche se questa sensazione si perde nei meandri della nostra coscienza di specie, conserviamo con l’acqua un legame profondo, inconsapevole. Mi sembrava di ravvisarlo in quella muta processione che come un funerale si snodava per quattro chilometri sul litorale di Cagnano Varano e Ischitella sul Gargano. Da quando, nel dicembre del 2009, la notizia dello spiaggiamento si era diffusa, i pellegrini erano centinaia, sfidavano la pioggia e il vento pur di andare a vedere cosa il mare aveva sputato in una notte d’inverno. Non ci si poteva avvicinare troppo alle carcasse già in decomposizione, così piccoli gruppi rimanevano accanto ai due esemplari ancora vivi e qualche bambino, tra i più coraggiosi, provava ad accarezzarli. C’era chi piangeva. Protestava. Non riusciva a darsi pace che non si potesse far nulla per trascinarli al largo. Erano già due giorni che agonizzavano così. (…)
Nessuno sapeva o quantomeno si era sforzato di capire chi erano quei cadaveri sulla spiaggia. Come ho potuto accertare solo tempo dopo, essi appartenevano a un gruppo di adolescenti; i biologi li chiamano bachelor school, un branco di giovani esemplari che si riunisce per affrontare insieme la vita. Quei capodogli erano stati allattati dalla madre e dalle altre femmine del gruppo, perché tutte si occupano dei piccoli, sino all’età di due anni. Poi avevano imparato a conoscere le segrete profondità del mare di Alborán, dello Ionio, dell’Egeo, a pescare banchi di calamari nei canyon del Tirreno, fino a diventare indipendenti e prendere da soli le vie del mare. Come hanno mostrato le indagini sul dna, quegli esemplari erano nati e appartenevano al nostro Mediterraneo e qui avrebbero passato tutta la vita se qualcosa non li avesse spinti a nuotare come degli ossessi, ininterrottamente, per sette giorni di seguito, senza mangiare, né fermarsi mai: dallo Ionio settentrionale sino ai bassi fondali dell’Adriatico, andando incontro alla morte. (…)
I risultati delle analisi hanno superato le più nefaste previsioni dei biologi. Sono stati rilevati livelli altissimi di metalli pesanti tossici. Oltre al mercurio, il più pericoloso di questi veleni, anche cadmio, titanio, piombo, argento e cromo, un metallo che non si corrode e usato per produrre acciai ad alta resistenza nonché nelle vernici, nei coloranti e nella concia delle pelli (…). Gli inquinanti passano alle generazioni future attraverso il latte che le madri danno ai loro piccoli. Con l’allattamento i grandi mammiferi forniscono ai cuccioli tutte le sostanze solubili nel grasso accumulate da sempre. Alcuni biologi sono convinti che non saranno solo le baleniere giapponesi o norvegesi a provocare l’estinzione dei cetacei, ma l’eredità dei veleni da allattamento. E, invece, nel nostro latte materno quanti veleni possono concentrarsi? Perché, se è vero che non siamo inuit, non viviamo in Giappone, Norvegia o alle isole Fær Øer dove ci si ciba anche di balene e delfini, mangiamo pur sempre specie che hanno la stessa capacità di bioaccumulare inquinanti (tra cui il mercurio) come tonni, pesci spada e squali. Tuttavia l’uomo, a differenza di questi ultimi, li espelle molto difficilmente. Rischiamo di fare la stessa fine dei capodogli del Gargano?
Rispondere non è semplice. Vi sono differenti livelli di rischio che possono riguardare chiunque consumi pesce e, specialmente, alcune categorie come le donne gravide e i bambini. Ma il pericolo è variabile, dipende dalla concentrazione di veleno in ciò che mangiamo. L’esperienza insegna, però, che quando gli scarichi di mercurio si concentrano in una determinata zona di mare gli effetti possono essere devastanti. I primi casi si registrarono già negli anni Cinquanta, ma non riguardavano il Mediterraneo: sulle coste del mar del Giappone i gatti iniziarono a ballare su due zampe.