La mossa del governo di rinviare la pubblicazione del Documento di economia e finanza, in attesa dei dati sul Pil da parte dell’Istat, dà la misura della disperazione in cui versano le economie europee. La recessione avanza senza ostacoli, le politiche di austerità hanno finora solo aggravato la situazione, la mole del debito pubblico aumenta, non solo in Italia, in maniera incontrollabile. E tutto questo dovrebbe essere arginato da un po’ di consumi in droga e prostituzione capaci di incrementare il Prodotto interno lordo dell’1 o magari del 2%? Poca roba. Un dibattito così impostato, e basato su una corsa sgraziata a cercare coperture finanziarie in ogni anfratto della spesa pubblica – una volta le pensioni, un’altra gli statali e così via – non riuscirà mai ad affrontare la vera malattia che ormai pervade soprattutto Usa e Unione europea: la stagnazione economica endemica. In realtà, nessun paese tornerà a prima della crisi, e in particolare l’Italia.
Il mondo nel 2060
La funerea previsione non deriva da circoli pessimisti votati al complotto internazionale, ma dalle stime di tutte le organizzazioni internazionali. La più autorevole è forse quella dell’Ocse del luglio scorso: Le grandi sfide dei prossimi 50 anni, redatta dal Dipartimento degli Affari economici, n. 24. Lo studio non ammette illusioni: “La crescita mondiale – si legge nell’introduzione – marcherà il passo passando dal 3,6% tra il 2010 e il 2020 al 2,4% tra il 2050 e il 2060”. Ci aspettano decenni di stagnazione, quindi, se non di vera recessione, trattandosi di una stima media a livello mondiale. Il rallentamento sarà provocato “dall’invecchiamento della popolazione” ma anche da un fatto nuovo: “La decelerazione progressiva delle economie emergenti”. Cina, India, Brasile, Paesi arabi, insomma, non traineranno più l’economia mondiale come hanno fatto nell’ultimo quinquennio – in particolare dopo il crac finanziario del 2008 – anche se “il centro di gravità dell’economia mondiale continuerà a spostarsi verso i paesi attualmente non membri dell’Ocse”.
A condizionare pesantemente il Pil mondiale, inoltre, ci saranno i fattori climatici: “Il cambiamento climatico – si legge ancora nel rapporto Ocse – amputerà il Pil mondiale dell’1,5% in media e del 5% nel sud-est asiatico”. Lo scarto tra occidente e paesi emergenti appare ancora più chiaro se si scompone la dinamica del Pil: nella crescita al 3,6% del decennio 2001-2010, e che sarà replicata nel decennio fino al 2020, la quota dei paesi Ocse ammonta all’1,1-1,2% mentre il 2,5% riguarda il resto del mondo. Nel decennio 2050-2060, i paesi Ocse scenderanno allo 0,5%, mentre il resto del mondo cumulerà quasi il 2%. Lo si può chiamare declino, recessione, riaggiustamento o come si vuole, ma è il segno di un andamento dell’economia mondiale in cui i tassi di crescita del passato non esistono più. Non solo quelli straordinari degli anni 60 in cui si raggiungevano picchi dell’8% (l’Italia del 1960) ma nemmeno quelli degli anni 70 e 80 in cui crescere del 3-4% era un’ipotesi credibile.
Con queste previsioni, invece, si moltiplicheranno le aree di crisi, i disfunzionamenti strutturali, in particolare quelli tra l’andamento della finanza e quello dell’economia reale. Nel recente rapporto della Banca dei regolamenti internazionali (Bri), non a caso si sottolinea, come problema economico maggiore, “lo scollamento tra il dinamismo dei mercati e l’evoluzione soggiacente dell’economia”. In una situazione di stagnazione produttiva, infatti, i capitali sviluppano tutta la creatività finanziaria possibile per cercare di mantenere tassi di profitto accettabili con le storture che il mondo ha già visto e conosciuto.
Il Prodotto della depressione
L’economia mondiale, e quella italiana in particolare, deve ritrovare una bussola per emergere da questo quadro di sfacelo, ma il dibattito politico non sembra accorgersene e si muove su una tempistica basata sulla ricerca momentanea del consenso. E invece è ancora la Bri a spiegare che “se le misure non si iscrivono in una prospettiva di lungo termine rischiano, cercando di risolvere un problema immediato, di crearne uno ben più grave”. In questo senso, la domanda se le piccole alterazioni nel metodo di calcolo del Pil siano sufficienti e utili per uscire dalla palude sono lecite. E le risposte sono piuttosto scontate. Non bastano.
Il Pil, convenzionalmente, misura il valore complessivo dei beni e servizi finali prodotti all’interno di un dato Paese o area geografica in un determinato arco di tempo, in genere un anno. La sua introduzione deve molto agli studi di Simon Kuznets e risale alla Grande depressione statunitense quando, secondo l’economista che nel 1971 riceverà il premio Nobel, l’economia non si conosceva abbastanza e non aveva la percezione della propria crescita. Il Pil, infatti, misura la ricchezza prodotta in quel dato periodo, da non confondere con la ricchezza complessiva del Paese che, invece, è l’accumulo di ricchezze prodotte successivamente (in Italia la ricchezza complessiva delle famiglie a fine 2013 era circa 8 volte il reddito disponibile, dati Banca d’Italia).
Esistono tre diverse metodologie per calcolare il Pil. Il Metodo della spesa calcola la somma dei Consumi (spesa delle famiglie in beni durevoli, beni di consumo e servizi), degli Investimenti (spesa delle imprese e delle famiglie in immobili) della Spesa Pubblica e delle Esportazioni nette (differenza fra esportazioni e importazioni).
Il Metodo del Valore Aggiunto somma invece i valori dei Beni e dei Servizi prodotti dalle imprese. Per eliminare le possibili duplicazioni, ad ogni stadio della produzione viene contabilizzato, come parte del Pil, solo il valore aggiunto al bene in questione in quello specifico stato della produzione. Il valore aggiunto può essere quindi definito come la differenza tra il ricavo ottenuto dalla vendita e la somma pagata per l’acquisto delle materie prime e dei semilavorati utilizzati nel processo produttivo.
Il Metodo dei Redditi, infine, si ottiene dalla somma delle Retribuzioni e dei Redditi da Capitale. I tre metodi producono tutti lo stesso risultato. Come si può verificare, tutti e tre i metodi si basano su una valutazione fotografica e quantitativa dell’economia che, ad esempio, non tiene in conto fattori oggi rilevanti come lo stato dell’ecologia, il benessere sociale.
Anche per questo motivo tra gli economisti è nato il dibattito sulla sua efficacia. Storicamente, il tema è stato posto con forza da un celebre discorso di Bob Kennedy che puntava l’indice contro un Pil che “misura tutto eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”. Da quell’intuizione è emersa una corrente che mira a sostituire il Pil con il Fil, l’indicatore di felicità come ha fatto il piccolo stato tibetano del Buthan che ha istituito il nuovo indice. Si base su quattro indicatori chiave, sviluppo sociale sostenibile, sostenibilità ambientale, promozione culturale e buon governo e promette, se applicato su larga scala, una rivoluzione.
Ma il dibattito è ormai entrato dentro le sedi dell’economia “ufficiale” coinvolgendo i premi Nobel. A partire da James Tobin, lo stesso dell’omonima tassa, i cui studi compongono l’Isew, l’indice di un welfare economico sostenibile (che considera il degrado ambientale ma anche il deprezzamento del capitale ambientale). Nel 2008 si arriva alla formalizzazione che ha immediati risvolti politici. È Nicolas Sarkozy, allora presidente francese, a istituire una Commissione guidata dal Nobel Joseph Stiglitz e composta da 22 esperti tra cui altri 4 Nobel, il più noto è Amartya Sen. Nel loro documento conclusivo si fa notare come nel Pil vengano comprese le spese per riparare i danni ambientali con il risultato di un prodotto in crescita ma di un benessere sociale che certo non aumenta. Più importante ancora, l’annotazione secondo cui se si fossero considerati indicatori sulla sostenibilità finanziaria, la crisi del 2008 sarebbe stata capita in tempo e, forse, governata.
In cerca di alternative
Gli studiosi hanno così redatto 12 raccomandazioni che riguardano il benessere materiale e non materiale. La prima raccomandazione è di porre attenzione al reddito e al consumo più che alla produzione oppure di misurare i servizi offerti dallo Stato non in base ai loro costi ma al loro impatto sul benessere dei singoli. Si raccomanda l’importanza del tempo libero, facendo notare che, se fosse incluso nell’indice di benessere, farebbe annullare il vantaggio degli Usa in termini di Pil pro-capite. Tale impostazione si scontra con l’idea base di Kutznets secondo cui l’indice di crescita non ha niente a che vedere con il benessere di un paese. I fautori di una revisione del Pil, però, rispondono che non si tratta di sovrapporre i due indici ma di costruirne uno che serva davvero a migliorare il benessere. Il cui andamento, troppo spesso, è del tutto scollegato all’aumento quantitativo misurato dal Prodotto interno lordo.
Di quella commissione faceva parte anche l’ex ministro del Lavoro italiano, Enrico Giovannini, fautore, ai tempi della sua presidenza dell’Istat, di un’altra iniziativa: la formazione del Bes. Nel dicembre 2010, infatti, Cnel e Istat danno il via a un’iniziativa che punta a misurare il “Benessere equo e sostenibile” (Bes), integrando indicatori economici, sociali e ambientali con misure di diseguaglianza e sostenibilità. Gli indicatori sono: salute, benessere economico, istruzione e formazione, lavoro e conciliazione dei tempi di vita, relazioni sociali, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ricerca e innovazione, qualità dei servizi, politica e istituzioni.
Nella Lectio magistralis pronunciata a Lucca nel 2012, Giovannini dice: “Il Bes aspira a divenire una sorta di ‘Costituzione statistica’ perché la riflessione su come misurare il benessere e su quali ne sono le dimensioni è anche una riflessione su come la politica definisce i suoi. Da ultimo, la campagna Sbilanciamoci ha invece ideato il Quars, l’indice che misura la qualità dello sviluppo delle regioni italiane e punta a recepire in Italia le raccomandazioni della commissione Stiglitz.
Dal 20 settembre i paesi dell’Unione europea si doteranno del nuovo sistema di calcolo. Si tratta fondamentalmente di un cambiamento di tipo tecnico, nel senso che non muta il metodo di fondo prescelto, ma si amplia lo spettro delle voci e quindi la variabile quantitativa. Per quanto si vogliano però modificare i sistemi di calcolo, l’economia globale appare bloccata da ragioni più strutturali e di fondo. Si produce più di quanto è possibile collocare sui mercati, il peso della finanza è sempre più spropositato, la distribuzione delle ricchezze sempre più ineguale. Forse il dibattito dovrebbe ricominciare da zero. Quello che è sicuro è che non ci salverà il Pil.