“Contro il tempo, contro le stagioni, contro lo sgombero, per una cultura libera ed accessibile a tutti, per spazi vivi che producono cultura, socialità ed aggregazione. Perché ci piace, perché non ci va di starvi a guardare, perché vogliamo creare, costruire e perché vi vogliamo distruggere. Siamo tornati.”
Queste sono le parole di accompagnamento alla foto che sul suo profilo scrive sabato alle diciannove Valerio Carocci. Tra due ore e mezza quelle sedie saranno tutte piene. Molte altre se ne aggiungeranno. Molti saranno quelli che vedranno il film in piedi. Stasera bisogna essere qui, per stringersi intorno a questo ragazzo di ventidue anni e ai suoi compagni quasi tutti più piccoli di lui, che per due anni hanno ridato vita al cinema America. E che all’alba di qualche giorno fa sono stati sbattuti fuori dalla polizia. Anzi no, detto così è sbagliato. Perché quella mattina dentro al cinema America c’era solo Valerio. Sette camionette della polizia contro uno solo. Che se ne è andato senza resistenza, senza una parola. Poche ore per riorganizzare le idee. Poi film proiettati sui palazzi. Un forno dismesso che sta cominciando a diventare una multisala, il Piccolo America, proprio accanto al vecchio cinema America, che il Comune di Roma potrebbe restituire alla città se solo ne avesse veramente la volontà. E poi l’arena gratuita allestita a piazza San Cosimato, dove stasera Francesco Bruni, domani Paolo Virzì, la prossima settimana Marco Tullio Giordana, Gabriele Salvatores, Paolo Sorrentino, Abel Ferrara e molti altri presenteranno i loro film. Perché una volta tanto il cinema, nella sua trasversalità di storie, poteri e forze diverse, si unisce per difendere una causa che più giusta non si può. Perché è giusto difendere “spazi vivi che producono cultura, socialità ed aggregazione”. Perché è giusto stare con chi ha poco più di vent’anni. Perché è giusto sostenere il nostro futuro.
Mentre il film di Francesco Bruni scorre sullo schermo parlo con Valerio. Un mio film è stato proiettato alcuni mesi fa all’America. Noi ci siamo sentiti qualche volta, anche dopo lo sgombero. Ma ci vediamo stasera per la prima volta. Non potevo non essere qui. Lui appena mi vede mi si avvicina, mi abbraccia, mi bacia. E iniziamo a parlare. Anzi no, è lui che parla, io voglio solo osservare e ascoltare. E vedo un ragazzo che potrebbe essere mio figlio, gli occhi neri vivaci, la faccia pulita, la stanchezza segnata sulle guance, l’entusiasmo e la lucidità nelle parole. Devo confessare che i primi mesi ero stato un po’ scettico sull’occupazione del cinema America: le partite della Roma e i film di Alberto Sordi mi sembravano scelte un po’ facili e superficiali. Ma non avevo capito niente. Grazie ad un’offerta di cultura popolare e dello spettacolo di aggregazione massima per la città di Roma questi ragazzi hanno pian piano riempito i milleduecento posti di quel cinema, facendolo diventare un luogo dove il film ritornava a ricoprire il suo ruolo primario di rito da consumarsi in collettività.
Valerio mi presenta suo padre. Mi porta a visitare il forno dove lui e una trentina di suoi compagni stanno lavorando perché diventi appunto una piccola multisala. Mi racconta di un ministro che sembrerebbe amico. Mi spiega le trattative e i tradimenti del Comune di Roma. Non si ferma neanche un minuto a recriminare, ma guarda avanti, con fermezza. Il film si inceppa. Valerio deve intervenire per farlo ripartire. Ora ha da fare. Ci salutiamo. Vedo un pezzo del film che ho già visto. Adesso ho voglia di un gelato. Sì, ma quello lo prendo a casa mia, dall’altra parte del fiume, a Testaccio, dove Giolitti fa panna zabaione e cioccolato fondente tra i più buoni di Roma. Stasera saranno ancora più buoni. Prima di andare incrocio lo sguardo del padre di Valerio. Gli sorrido. Un modo da timidi di dire grazie anche a lui.