Non vorrei apparire eccessivamente ‘nominalista’, ma sono un poeta e si sa che per il poeta, che pur è certamente conscio di come le parole non siano le cose, le parole siano poi, in sé, cose, cioè materia, evento, azione dotata di propria storicità.
Dunque, a proposito della discussione sull’ipermodernità in letteratura, nata a proposito dell’ultimo, omonimo, libro di Donnaruma, a seguito di una nota di Angelo Guglielmi su alfabeta2, volendo annotare a margine le inutili osservazioni di un poeta (cioè di un paria letterario), ciò che mi colpisce di più in tutti e nei tanti dibattiti che in questi anni si sono susseguiti su Modernità, Postmodernità e ora Ipermodernità è la contraddizione, evidente quanto strutturale, che sta nella ricerca che tutti gli analisti fanno di una serie di elementi (di “sintomi” direbbe Donnaruma) strutturali e ‘sovrastrutturali’ della contemporaneità diversi dalla Modernità, per poi utilizzare quanto raccolto semplicemente per tentare di definire la nuova forma di una vecchia poetica: il Moderno. La montagna partorisce il topolino.
Post o Iper che sia sempre di Modernità si tratta, quasi che fosse rassicurante convincersi che tutto è mutato solo perché tutto restasse com’era.
Il rischio, anche da questo punto di vista è, come suggerisce Guglielmi, quello di trasformare il critico in un «un dottore che si attarda ad analizzare i sintomi (di guarigione o di malattia) di un corpo morto.» Ma: e se il problema non fosse il prefisso, ma il nome, se il problema non fosse di consecutività (?) temporale, o di “intensità”, quanto piuttosto di un cambiamento radicale, che con ciò che è iniziato più o meno a fine XIX non ha più niente a che fare?
Forse che abbiamo anche il problema di dare un nome a ciò che è presente (e probabilmente futuro) e che con il Moderno non ha più nulla a che vedere? E che dargli un nome non sia soltanto apporre un’etichetta, ma prendere infine piena coscienza di un gap radicale?
Non ho particolare passione per le ‘etichette’ critiche, ma so che nominare aiuta a vivere, a conoscere, e dunque forse cercare un nome davvero nuovo, diverso, ci aiuterà a capire meglio quella diversità del presente che è tanto evidente quanto inafferrabile.
Questo vale anche per il termine ‘realismo’: se la realtà e il nostro modo di esperirla sono tanto radicalmente mutati (e certamente lo sono) perché continuare a rimestare nel pentolone di Zola e Flaubert? In questo concordo con Guglielmi: ha davvero poco senso misurare il coefficiente di realismo presente in questo o quel romanzo contemporaneo e farlo con certe modalità onuste. È davvero discutibile che Gomorra sia più realista di Vogliamo tutto (o dell’Inferno della Commedia, o del Decameron) ed è indiscutibile – imho – che avesse ragione Sanguineti quando affermava che il vero realismo era l’Avanguardia.
Il reale è sempre ciò in cui sta per mutarsi, il resto è pelle morta, forma indigesta, al massimo mediocre letteratura. Il realismo è, invece, la capacità di coglierlo.
E poi. Ovviamente colpisce che nell’analisi delle forme di questo nostro presente letterario tutti si siano concentrati esclusivamente sulla prosa e più precisamente sul romanzo, come se la poesia (e il racconto breve) non esistessero affatto. Ovviamente tutto ciò è comprensibile per varie ragioni: è evidente come – nella percezione comune – letteratura sia sinonimo di romanzo ed è chiara e assolutamente lecita la scelta critica di Donnaruma di utilizzare il romanzo come sineddoche del ‘campo letterario’.
Però: intanto alcuni dei nomi tirati in ballo nel dibattito, penso a Balestrini, Volponi, Sanguineti, sono stati anche poeti; peraltro, fare così taglia dall’analisi autori come Pagliarani, Porta, Raboni, Giuliani, Zanzotto, Fortini, per non parlare di Villa, Cacciatore, Spatola, Vicinelli che certo a proposito di mutamento e percezione del mutamento potrebbero suggerirci la loro non pleonastica opinione.
Per carità, non sarò io, che sostengo da tempo quanto la poesia sia estranea alla ‘letteratura’, a farne carico a chi dibatte.
Nondimeno, se lo scopo è tentare di individuare le caratteristiche formali e le evidenze strutturali del presente, non solo per farne ‘storiografia’, ma per provare a immaginare un ‘futuro’, allora saltare a pie’ pari la poesia significa ignorare una parte sostanziale della riflessione letteraria a proposito di quei mutamenti a cui si non si può non fare riferimento: multimedialità, oralizzazione della comunicazione, digitalizzazione della scrittura, rapporti tra potere, forme della comunicazione e intellettuali e/o artisti, sono al centro dell’attenzione dei poeti praticamente in tutto il mondo da decenni, ed anche questa mi pare una forma di ‘realismo’, per dirla con Sanguineti, di cui potrebbe essere utile tener conto.
Magari per rendersi conto che un romanzo davvero ‘realista’ oggi non è tanto quello che inzeppa di “fatti veri” la sua narrazione, quanto quello che fa i conti con le nuove ‘forme della scrittura’ e con l’evidenza che esse non sono “neutre”.
Giustamente Guglielmi cita il Benjamin de Il narratore: « Il primo segno di un processo al cui termine si colloca il declino della narrazione è la nascita del romanzo alle soglie della modernità. Il luogo di nascita del romanzo è l’individuo nel suo isolamento, che non è più in grado di esprimersi in forma esemplare sulle questioni di maggior peso e che lo riguardano più da vicino. (…). Scrivere un romanzo significa esasperare l’incommensurabile nella rappresentazione della vita umana». Sono le forme di questa “solitudine” – oggi terribilmente “affolata” – e di questa “incommensurabilità” a essere mutate, probabilmente per sempre.
Poiché la digitalizzazione certamente non uccide la scrittura, né la narrazione (anzi le muta e certamente le rafforza), ma certo reca e recherà danni fatali al libro cartaceo: il romanzo, che di libro è oggi certamente sinonimo, forse dovrebbe iniziare a riflettere anche su questo, cioè sulle forme della sua comunicazione.
Il Don Chisciotte, Madame Bovary e il Nome della rosa hanno in comune una caratteristica strutturale e fondamentale, sono libri fatti di carta. Le narrazioni che leggono e leggeranno i nostri figli no, o almeno non solo. Saranno piuttosto, joycianamente, “libri che si leggono con le orecchie”.
La poesia su questo riflette da tempo. Ricordarsi di lei non può dunque far troppo danno all’analisi.