Se il futuro fosse un gambero
Ma proviamo per un momento a immaginare “come ci sarebbe potuto apparire il passato se il futuro fosse accaduto prima” («what the past would look like if the future had happened sooner»). Recita così uno degli slogan più famosi dello steampunk (lett. “punk a vapore”), un movimento artistico-culturale, nato alla fine degli anni Ottanta, che presuppone la presenza, dietro ogni forma, architettura o strumento delle moderne tecnologie, di un “antenato” di età vittoriana.
La nostra vita, invece di rincorrere i circuiti stampati, torna apparentemente – qui sta il gioco – a girare intorno a vecchi dispositivi o a vecchi meccanismi, e li rilegge alla luce della postmodernità o dell’era del mutazionismo: lanciafiamme e astronavi (in legno e acciaio) a vapore; telefonini trasformati in archeocellulari, dotati di pulsanti simili a quelli di una macchina da scrivere, alimentati da una piccola centrale a carbone portatile, da indossare a mo’ di zainetto, e collegati a un monitor a tubo catodico; pen drive che immagazzinano informazioni attraverso una serie di ingranaggi mossi da una minuscola stilografica, che scrive su piccoli fogli di carta; computer fatti di manopole, leve, sbuffi di vapore e tubi di rame e ottone che corrono per decine e decine di metri intorno a una tastiera rigorosamente meccanica, e a uno schermo incorniciato in un’intelaiatura di legno e di cuoio; protesi umane, lontanissime dai circuiti integrati che decodificano impulsi nervosi, funzionanti grazie a pistoni idraulici e manometri. Ma ce n’è anche per chi vuole imbarcarsi sul Nautilus del Capitano Nemo, e vivere appassionanti avventure insieme a lui e alla Lega degli Straordinari Gentlemen; per chi vuole spostarsi sul Castello Errante di Howl del giapponese Hayao Miyazaki; per chi vuol viaggiare nel tempo sulla locomotiva di Ritorno al futuro.
Come riuscire a immaginare tutto questo? Non sarebbe un esercizio mentale molto più complicato di quello necessario a figurarsi un dispositivo, infinitamente più piccolo della punta di uno spillo, in grado di memorizzare tutti i libri del mondo impiegando meno tempo di quello che ci vorrebbe per leggere questa frase.
Da una costola del cyberpunk
Se i precursori del genere sono già individuabili negli anni Sessanta e Settanta, il termine steampunk è stato coniato nemmeno tre decenni fa, probabilmente da K. W. Jeter. Alla fine degli anni Ottanta lo scrittore americano, nella lettera di accompagnamento a un suo romanzo (Morlock Night, 1979), inviato a una rivista di fantascienza, dichiara di ritenere che “le fantasie vittoriane siano prossime a diventare la prossima grande cosa” («Victorian fantasies are going to be the next big thing») e per etichettare il fenomeno, riferendosi a sé ma anche a Tim Powers (The Anubis Gates, 1983) e a James P. Blaylock (Homunculus, 1986), pensa proprio alla possibilità di utilizzare la parola steampunk: «Something based on the appropriate technology of the era; like ‘steampunks’, perhaps» (“Locus Magazine”, num. 315, aprile 1987).
Al tempo Jeter, Powers e Blaylock, come William Gibson (a partire da Neuromancer, 1984) e Bruce Sterling, Michael Swanwick e Walter Jon Williams, esploravano «the futuristic commingling of human being and computer in their “cyberpunk” novels and stories» (Michael Berry, Wacko Victorian Fantasy Follows ‘Cyberpunk’ Mold, “The San Francisco Chronicle”, 25 giugno 1987). Sarebbe diventato un cult del “punk a vapore”, d’altronde, proprio un romanzo di Gibson e Sterling: The Difference Engine (1990). Il protagonista, Charles Babbage, è il matematico e filosofo inglese (1791-1871) che aveva accarezzato a lungo l’idea di riuscire a progettare una macchina analitica, un protocalcolatore in grado di eseguire qualunque calcolo.
Quel sogno, in The Difference Engine, diventa realtà.
di Massimo Arcangeli e Sandro Mariani