Niente a che vedere con la Padania e lo scalcinato mito secessionista della Lega Nord. L’idea di Scozia indipendente del fronte di Alex Salmond, leader dello Scottish National Party, è molto più simile a quella delle regioni rosse dello Stivale. E la rivolta, prima che territoriale è sociale ed economica. Altro che “padroni a casa nostra”. Se al referendum vinceranno i Sì, lontano da Westminster il nuovo Stato sarà “più equo, democratico e ricco”, assicura il prime minister, che spiega: “Siamo la nazione di Adam Smith, padre e filosofo dell’economia. Con l’indipendenza costruiremo un Paese più prospero e giusto. Che redistribuisce le ricchezze prodotte al suo popolo”.
Lontani anni luce dagli spadoni di Braveheart tanto cari al Carroccio, gli indipendentisti preferiscono affidarsi a Sweet dreams di Annie Lennox, il brano della storica voce degli Eurythmics che accompagna tutte le loro manifestazioni. “Utopia for the Yes”, scandiscono assieme alle parole d’ordine: deindustrializzazione e socialismo, welfare scandinavo con tasse statunitensi, no alla Nato, alle armi e all’energia nucleare, sì all’Unione Europea, no alle politiche anti-immigrazione di Downing street. Sono giovani, il 60 per cento degli under 40 è schierato per il Sì, e, in buona misura, odiano gli inglesi. Londra non è “ladrona”, ma di destra, antiscozzese, ultraliberista e fastidiosamente borghese. In una parola: tory.
Gli indipendentisti sono così convinti delle loro idee da fare spallucce agli appelli del premier britannico David Cameron: “Io prima o poi me ne andrò, ma se andate via voi sarà per sempre”. E le solenni promesse di “poteri senza precedenti nei settori dell’energia e dello stato sociale” a Edimburgo diventano “piccoli cambiamenti”, come spiega Marco Biagi, politico di origini italiane, membro Snp al parlamentino di Edimburgo e leader della Yes campaign. Il suo programma non lascia spazio a dubbi: “Voglio la matematica certezza che decisioni sul sistema sanitario, sulle pensioni e sulla scuola siano prese dalla Scozia per gli scozzesi”.
Una sicurezza che deriva dalla convinzione di avere già vinto, anche se, alla fine, nelle urne prevarranno i No. Perché c’è da dire che le concessioni del Regno Unito sono significative: autonomia in materia di spesa pubblica e fisco, rimesse dello “Scotland oil”, il petrolio estratto offshore nel mare del Nord, sanità e istruzione gratuite se e senza ma. Negli equilibri di Westminster, gli highlander diventeranno determinanti anche in politica estera: stop all’atlantismo interventista al fianco degli Usa e via libera a un rapporto più stretto con Bruxelles.
Oltre che contro Londra, il voto di giovedì rischia di trasformarsi in una vera e propria rivolta anti-Labour, il partito di centrosinistra attivamente schierato coi conservatori nel raggruppamento “Better togheter”. “I socialdemocratici hanno abbandonato i loro ideali, così noi abbiamo abbandonato loro”, fanno sapere dall’headquarter dello Snp. “Qui di laburisti non ne vediamo da tempo, ci sono red tories e i blue tories”, incalza Michelle Thomson, leader di Business for Scotland, un cartello che raggruppa 2600 imprenditori nazionalisti. E tory a queste latitudini è sinonimo di inglese: causa di tutti i mali che affliggono il Paese, a partire dalle diseguaglianze sociali, vera spina nel fianco del progetto di società armoniosa di Salmond e della coalizione per il Sì. “Siamo progressisti e peroriamo la giustizia sociale che Londra ci nega. Il sale della democrazia è avere un governo che hai scelto”, scandisce ancora Biagi.
Nonostante la Scozia sia al 14° posto nella lista dei paesi più ricchi, deve fare i conti al suo interno con sacche di povertà da terzo mondo. Per capirlo basta farsi un giro nelle periferie di Glasgow, un tempo la seconda città più importante dell’Impero britannico: sul fiume Clyde l’aspettativa di vita è di 72 anni per gli uomini e 78 per le donne, una delle più basse in Ue. Per le strade, in mezzo alla desolazione e alla sporcizia, rimangono solo le tracce dell’ex industria pesante e dei cantieri navali che resero celebre la città.
Ma dal fronte per il sì assicurano: “Con l’indipendenza, grazie alle rimesse dell’estrazione del greggio, alle esportazioni di whisky e di pesce e allo sviluppo dell’ingegneria, le politiche figlie di Margareth Tatcher, che hanno condannato un intero popolo costringendolo al declino, saranno solo un ricordo”.
Il 9 settembre, per la prima volta nelle intenzioni di voto, i Sì hanno prevalso, seppur di poco, sui No. Così, l’ondata che dopo 307 anni rischia di travolgere la più importante unione nazionale della storia pare essere a un passo dalla vittoria. A chi distribuisce volantini in strada con scritto “Better togheter”, i simpatizzanti del fronte indipendentista rispondono: “Meglio insieme? Sì, con mia moglie, non con Londra”.