Un’amica, madre di una giovane di 23 anni, mi racconta di come si senta ferita dalla distanza che la figlia mette, in questo momento, tra loro mentre sta per fare le prime scelte di autonomia da adulta, nel lavoro così come nella vita sentimentale. Attraversare i conflitti provocati dalle crisi di crescita non è facile, e non c’è persona che possa ferire di più di un figlio o di una figlia, a prescindere. Un proverbio yiddish dice: “I figli piccoli non ti lasciano dormire, quelli grandi nemmeno riposare” ed è davvero così, data l’intensità e la complessità del legame.
Poco prima di ricevere le confidenze di questa madre in crisi avevo letto un articolo sulla scelta di non maternità, scritto dall’autrice di American monsters, l’eclettica imprenditrice editoriale e scrittrice femminista Sezin Koehler, una riflessione che mi ha contemporaneamente trovata consenziente e infastidita. Il tema che tocca è importante, perché riguarda la libertà di scelta di non mettere al mondo, scelta che per le donne non è scontata. E’ possibile che la percezione che si ha della presunta ‘libertà di scelta’ procreativa nella cultura occidentale sia quella di un traguardo abbondantemente tagliato: ma a parte, e oltre, le difficoltà economiche, che pesano sulla vita delle giovani donne quando si tratta di decidere se essere o non essere madri, c’è la questione della solitudine, culturale e sociale, che circonda il tema della maternità.
In superficie è tutto un fiorire di messaggi e immagini stereotipate e rassicuranti sul materno: dalla pubblicità tv, nei giornali così come nei social il merchandising prolife impazza, il dibattito sui diritti riproduttivi anche nelle famiglie omosessuali mette al centro la genitorialità come valore e l’interruzione di gravidanza viene spesso dipinta come il sintomo dell’egoismo femminile, frutto dell’emancipazione che ha lacerato la naturale propensione delle donne all’essere madri, accoglienti e oblative.
Ma, in tutto questo rumoreggiare su natura, istinto e festa della mamma, il silenzio è di tomba su cosa sia nel concreto la messa al mondo, cosa comporti l’essere responsabile di un’altra vita umana, sul come ti cambia per sempre, nel corpo così come nella vita quotidiana, il diventare madre (e padre). Il silenzio è assordante su questo: oggi si trovano tutorial su qualunque cosa, ma niente ti prepara, ti supporta e ti offre strumenti per esercitare in modo consapevole la scelta più grande nella vita di un essere umano.
La società è decisamente più attrezzata a stigmatizzare la sottrazione (delle donne) dal destino materno piuttosto che aiutare a capire cosa realmente vuoi e puoi fare della tua vita. Nell’articolo di Koehler sono indicati otto motivi per non mettere al mondo, tutti tranne uno (dove si caldeggia l’adozione, vista la quantità di minori abbandonati) legati al desiderio di vivere agiatamente e senza vincoli: sono le stesse ragioni (tolte quelle relative alla fatica del corpo) che potrebbe addurre un uomo. Eppure, se è una donna a esporle, qualcosa non va. Alcuni dei commenti al pezzo evidenziano l’egoismo e l’autocentratura dell’outing dell’autrice, come se la scelta di maternità fosse tout court una palese manifestazione di generosità.
In Italia si è parlato poco del movimento Childfree, che ha mosso nel 2000 i primi passi nel mondo dei movimenti sulla sostenibilità negli Usa e in Australia, tema sfiorato dal libro Perché non abbiamo avuto figli, evidenziando come ancora non ci sia una cultura di riferimento per trovare le parole adatte a dire, in questa fase di passaggio antropologico epocale, quello che sta accadendo nelle società dove sessualità e procreazione sono due ambiti distinti, e dove essere una donna non è più un destino legato a doppio nodo con il ruolo materno obbligatorio. Molto utile, quindi, soffermarsi sull’articolo di Koehler, e anche vedere l’intenso film Thousand times good night.
E’ la storia di una donna forte, inviata fotografa di guerra, lacerata tra la passione per il suo lavoro, (un’ossessiva missione per fare vedere la violenza del mondo al mondo), e l’amore per la sua famiglia, un marito e due bambine ancora piccole. Una storia disturbante, un po’ come lo sono gli otto motivi per non essere madre, soprattutto per una ragione: se a scriverli fosse stato un uomo avremmo, molto probabilmente, trovato normale, persino onesto e rassicurante il suo dirsi estraneo al richiamo dell’istinto, così come se nel film al posto di una donna ci fosse stato un uomo, avremmo trovato quasi ovvio il dilemma (che si risolve a favore della propria passione lavorativa), tra la febbrile carriera e i legami affettivi.