Calcio

Mondiali 2022: mazzette, morti sul lavoro e minacce Isis. Cresce il fronte anti-Qatar

Le milizie di Al Baghdadi hanno minacciato ritorsioni nel caso in cui la Fifa non revochi l'evento. Mentre l'organizzazione mondiale del calcio indaga sulla campagna di corruzione che la famiglia reale di Doha avrebbe condotto per aggiudicarsi l’organizzazione dell’evento

Non solo Siria, Iraq oppure Israele. C’è un altro paese protagonista dell’incandescente scenario mediorientale: il Qatar. Nonostante gli occhi di tutti addosso, a 8 anni dalla Coppa del Mondo, il basso profilo non è nel dna del paese. Con il risultato di trovarsi completamente isolato nella sua stessa penisola.

La nuova frontiera dell’ambizione qatariota si chiama Lusail. La spiaggia, 15 km a nord di Doha, lascerà il posto a una città da 450 mila abitanti. I lavori costeranno 45 miliardi di dollari e avranno come eredità uno zoo per giraffe, un ospedale e sei isolette. Nei piani degli organizzatori l’Iconic Stadium di Lusail sarà il gioiello del Mondiale 2022. I suoi 86 mila posti a sedere saranno coperti da nuvole artificiali, un sistema di protezione solare che non prevede emissioni inquinanti. I cantieri procedono spediti perché i soldi al Qatar non mancano. Le polemiche nemmeno. Il caso più recente è quello di Krisna Upadhyaya e Gundev Ghimire, due cittadini britannici di origini nepalesi che hanno trascorso dieci giorni nelle prigioni di Doha con l’accusa di spionaggio.

I due lavorano per il Global Network for Rights and Development, un gruppo norvegese che si occupa di tutela del lavoro ed è sospettato di collaborare con gli Emirati Arabi Uniti. I rapporti tra i due paesi del Golfo sono ai minimi storici: due mesi fa tre qatarioti sono stati fermati a Abu Dhabi, forse torturati. A marzo gli Emirati avevano ritirato l’ambasciatore dal Qatar per protestare contro il suo sostegno ai Fratelli Musulmani. In tutta l’area gli islamisti sono fuorilegge e la pressione su Doha è in crescita, dopo la restaurazione di Al Sisi in Egitto e l’incendio Isis tra Iraq e Siria. Arabia e Egitto, appoggiati in questo caso dall’amministrazione Obama, non paiono più disposti a tollerare ambiguità nei confronti di quella che considerano un’organizzazione terroristica. Negli scorsi giorni l’emiro del Qatar, Tamim Al Thani, che pochi mesi fa ha preso il potere dalle mani del padre, ha ceduto alle minacce di ritorsioni e ha intimato a sette dirigenti della Fratellanza di lasciare il paese. Il Cairo e Riad non si accontentano del passo indietro e chiedono arresti.

Le tensioni con i vicini non sono una novità per il Qatar, che è sempre riuscito a spezzare l’isolamento con i petroldollari e la pubblicità internazionale confezionata dall’emittente casalinga Al Jazeera. Il paese, però, appare ora accerchiato e assiste incredulo alla formazione di un’alleanza non dichiarabile tra gli stati della Lega Araba e Israele. Il Qatar è tra i principali finanziatori di Hamas e tra i nomi dei leader islamisti costretti alla fuga non figura, per il momento, quello del palestinese Khaled Mashal. Di recente l’emirato ha sovvenzionato con 4,6 milioni di dollari due società arabo-israeliane. Sono il Maccabi Nazareth e il Bnei Sakhnin, club della Galilea da sempre in prima fila per una coesistenza pacifica. Già nel 2006 il paese pagò la costruzione del Doha Stadium a Sakhnin: fu il primo investimento di uno stato arabo in Israele. La nuova mossa ha scatenato l’ira della destra di Gerusalemme, che si ritrova nella tifoseria del Beitar. Duro anche Simon Peres, secondo cui il Qatar è “il primo finanziatore di terroristi al mondo”.

Come se non bastasse, Isis stringe la sua morsa sulla penisola. Le milizie di Al Baghdadi hanno minacciato ritorsioni nel caso la Fifa non revochi il Mondiale 2022. Lo Stato Islamico sta combattendo una crociata contro il pallone, fatto di divieti al gioco per strada e bombe durante la visione dei match in tv. Insopportabile, dal punto di vista jihadista, la presenza di centinaia di migliaia di tifosi infedeli a due passi dal loro territorio. In questo quadro di diplomazie impossibili, le condizioni dei lavoratori rischiano di passare in secondo piano. Nessuno parla più del milione e duecentomila migranti all’opera per meno di un euro all’ora in Qatar, ridotti in schiavitù dal regime della Kafala che li rende proprietà del datore di lavoro. In centinaia, denuncia Human Rights Watch, sono già morti nei cantieri degli stadi del Mondiale o dei resort di lusso.

Il Qatargate è anche un caso di malaffare internazionale. La Fifa indaga sulla campagna di corruzione che la famiglia reale di Doha, che controlla il Paris Saint Germain di Ibrahimovic, avrebbe condotto sin dal 2008 per aggiudicarsi l’organizzazione dell’evento. Sul banco degli imputati i rappresentanti di numerose federazione africane, ma soprattutto il numero uno della Uefa Platini e l’ex presidente francese Sarkozy, rei di uno zelo sospetto nel sostegno alla candidatura mediorientale.

Pur di portare la Coppa al sole del Golfo le istituzioni del pallone ora valutano la possibilità di spostare la competizione in inverno, stagione che garantisce condizioni atmosferiche più consone. Così, dopo la Lega Araba, Israele, Isis e le ong di mezzo mondo, anche le società di calcio si sono iscritte al fronte anti Qatar: “Ci vogliono delle argomentazioni forti per interrompere la stagione in corso e disputare il torneo a gennaio – ha detto pochi giorni fa un portavoce dell’Eca, l’associazione dei club europei – La decisione potrebbe compromettere l’intera stagione del calcio a livello mondiale”.