Ora è ufficiale. Dopo le ultime elezioni per il Landtag in Turingia e nel Brandenburgo anche la Germania deve fare i conti con un partito anti-euro. L’AfD (Alternative für Deutschland) è una formazione giovane, nata soltanto nel febbraio 2013 per iniziativa di transfughi della Cdu di Angela Merkel e della Fdp. Ma in poco tempo ha seminato scompiglio.
Alternativa per la Germania non è semplicemente un partito euroscettico. Di più. Ha infranto il dogma dell’intoccabilità della moneta unica che in Germania rasenta la frontiera del politicamente corretto. L’uscita dall’euro e il ritorno al marco “non è un tabù per noi” è scritto a chiare lettere nel programma. L’unione monetaria è “inadeguata” e “impoverisce” gli stati dell’Europa del sud, ormai “sull’orlo del fallimento”. L’AfD ha polarizzato l’opinione pubblica. Euro sì, euro no. Con buoni risultati. L’insofferenza per la politica europeista del governo tedesco non è un’invenzione. C’è una fascia di elettorato che – come l’AfD – non ne vuole più sapere di sborsare il denaro dei contribuenti per mantenere in vita l’euro. Alle europee del maggio scorso la neoformazione ha ottenuto il 7,1, superando per la prima volta la soglia simbolica del cinque per cento mancata d’un soffio alle elezioni per il Bundestag del 2013. Più di recente, in Sassonia l’AfD ha sfiorato quasi il dieci per cento. In Turingia e nel Brandenburgo, appena domenica scorsa, ha raggiunto, rispettivamente, il 10,6 e il 12,2 per cento.
Con i populismi di destra i nuovi arrivati hanno molto in comune: il rifiuto della moneta unica, la messa in discussione dei Trattati dell’Ue, il blocco dell’immigrazione, il ritorno a modelli familiari del passato, l’avversione per le politiche di equiparazione dei diritti tra omosessuali ed eterosessuali. Ma l’AfD è anche altro. A differenza di altre forze populiste il suo personale politico è affollato da economisti, imprenditori, professori universitari, giornalisti, affermati uomini di successo. Non c’è traccia di linguaggio triviale, né di volgarità plebee. Eppure questo drappello elitario della borghesia tedesca riesce a captare emozioni e umori del ventre molle della società. A cominciare da Bernd Lucke (nella foto), economista di stretta osservanza liberista e tra i fondatori del partito della prima ora. Un curriculum d’eccellenza, il suo. Docente di macroeconomia all’università di Amburgo e, dal maggio scorso, deputato al parlamento europeo. Accanto a lui si staglia Frauke Petry, balzata agli onori della cronaca come candidata alle recenti elezioni in Sassonia per il Landtag. Chimica e imprenditrice, 39 anni, fotogenica, madre di quattro figli, nata a Lipsia ai tempi della Ddr, cristiana credente, ha infiammato i media con le dichiarazioni sulla famiglia e la crociata contro la lingua inglese. Si è scagliata contro i connazionali che ai compleanni cantano Happy Birthday. “Ci impegneremo a difendere la lingua tedesca”. L’impresa di Petry produceva fino a poco tempo fa un materiale sintetico ecologico. Poi è andata fallita. Al momento è in corso un’inchiesta a suo carico per presunta bancarotta fraudolenta e occultamento di capitali. In campagna elettorale si è impegnata per il ripristino dei controlli alla frontiera della Sassonia con Polonia e Repubblica Ceca, per la restrizione del diritto di asilo e dell’aborto, e per una politica demografica. “La famiglia con tre figli deve diventare la normalità in Germania”. Ai vertici del partito ci sono anche Konrad Adam, filologo classico e giornalista, passato per la Frankfurter Allgemeine Zeitung e Die Welt, e Hans-Olaf Henkel, ex manager Ibm, presidente onorario per alcuni anni della Confindustria tedesca, attualmente parlamentare europeo e presidente della commissione per l’industria, ricerca ed energia.
Niente ex attori, ex comici, ex uomini di spettacolo, ex sportivi di fama. L’AfD è figlia del mondo dell’impresa e del mainstream culturale che si insegna nelle migliori facoltà di economia. È lo specchio di una classe imprenditoriale che inizia a considerare l’Ue un fardello pesante. La moneta unica ha garantito alla Germania un surplus commerciale da favola. Ora, però, potrebbe non essere più un affare. Il fiume di denaro regalato alle banche nell’impresa di mantenere in vita l’euro diventa un costo per le finanze pubbliche. Il rischio che per le imprese tedesche possa aumentare il carico fiscale, a danno della loro competitività all’estero, non è così irrealistico. Non a caso, l’AfD ha dichiarato guerra all’euro, alla burocrazia europea e alle banche. “La Germania non ha bisogno dell’euro. Noi vogliamo la reintroduzione delle monete nazionali o la creazione di unità monetarie più piccole e stabili”. Bisogna modificare i “Trattati per rendere possibile l’uscita di ogni stato dall’euro”. Quanto alle banche, sono state loro “a godere degli aiuti finanziari per salvare l’euro. Ora si facciano carico dei costi”. Così l’AfD è riuscita a connettere le paure e il malessere dei ceti medi (e non solo) con le pulsioni della classe imprenditoriale tedesca, interessata a un’Europa a due velocità e (almeno) due monete, geograficamente divisa in nord e sud.
Un partito di élite e di protesta che pare abbia fatto centro soprattutto nell’elettorato conservatore della Cdu. Il partito di Angela Merkel è quello che più ha da temere dal nuovo rivale. Fino a oggi l’establishment politico ha ignorato il fenomeno dell’AfD. I giornali si sono limitati alla caricatura di un partito che guarda all’indietro, al marco, alle famiglie monoreddito, al boom demografico dei tedeschi. La stessa cancelliera ha adottato la strategia del silenzio. Ma non ha funzionato.