In Egitto la repressione contro il dissenso verso il nuovo regime militare sta colpendo anche chi lavora nella cooperazione. Dalla deposizione del presidente islamista Mohammed Morsi lo scorso anno, diverse ong hanno cessato le loro attività, mentre numerosi cooperanti hanno ricevuto intimidazioni e hanno lasciato il paese. L’ong egiziana in cui lavora Heba, nome di fantasia per proteggere la sua identità, è regolarmente registrata e svolge dei programmi di educazione artistica per i bambini di un quartiere popolare del Cairo. Lo scorso luglio la polizia ha fatto irruzione nella sede contestando un abuso edilizio. “Abbiamo ricevuto delle minacce, i poliziotti ci hanno detto di stare attenti ai nostri bambini e ai nostri figli e noi non avevamo assolutamente idea di quanto fossimo realmente in pericolo – spiega Heba al IlFattoQuotidiano.it – abbiamo demolito alcune parti della nostra sede dove c’erano i laboratori per i bambini e la biblioteca per evitare problemi. Siamo stati accusati anche di ricevere fondi stranieri, siamo riusciti a dimostrare che non era vero, ma per motivi di sicurezza chiuderemo comunque a fine settembre”.
Quarantasei organizzazioni internazionali, tra cui Human Rights Watch, hanno chiesto con una dichiarazione congiunta di cambiare l’attuale legge approvata nel 2002 sotto Mubarak. Il governo, infatti, in applicazione di questa norma, ha dato tempo sino a fine novembre a tutte le organizzazioni sul territorio per ultimare la registrazione. La legge 84/2002 impone una registrazione per ogni ong e associazione e impone il controllo dei progetti da parte di una commissione istituita dal Ministero della Solidarietà Sociale. “I tempi e i termini per registrarsi sono molto lunghi – spiega Mohammed Fouda, operatore della National Community for Human Rights and Law – inoltre, alcuni articoli della legge sono molto vaghi e lasciano un ampio spazio decisionale, e di dunque di repressione, al Ministero che può negare la registrazione alle organizzazioni anche se queste presentano tutti i requisiti richiesti. Inoltre, in questi anni molte ONG hanno avuto difficoltà a farsi approvare dei progetti senza ricevere delle chiare motivazioni sul rifiuto”.
Soraya, nome di fantasia, è la coordinatrice di un’altra ong che fornisce assistenza ai rifugiati, dall’aiuto psicologico a programmi di educazione per donne e minori. Nell’ultimo periodo alcuni progetti presentati da Soraya grazie a delle donazioni straniere sono stati bloccati. “A noi sembra che il Ministero della Solidarietà Sociale non abbia nessun potere – dice Soraya a IlFattoQuotidiano.it – E’ la sicurezza che decide chi finanzia chi, nonostante non abbiano ufficialmente il potere e non sappiano veramente che attività svogliamo. Il governo egiziano cerca di impedire qualsiasi programma che riguardi i diritti umani. I nostri progetti vengono spesso fermati senza ragione e tutto è impostato sulla sicurezza nazionale non sulle attività che andremo a svolgere”.
Anche Human Rights Watch, lo scorso febbraio, ha deciso di chiudere il suo ufficio al Cairo. Uno dei suoi operatori, Omar Shakir, da alcuni mesi ha lasciato il paese e si è trasferito negli Stati Uniti. “Per la prima volta nella nostra storia abbiamo deciso di non avere più personale al Cairo. Lo scorso mese ad alcuni membri del nostro staff non è stato permesso di entrare nel paese – spiega Shakir raggiunto via Skype – molti di noi hanno ricevuto minacce più o meno esplicite e lavorare in Egitto non è mai stato così pericoloso”.
Lo scorso giugno 43 lavoratori di 5 ong sono stati condannati a pene tra 1 e 5 anni di carcere per aver ricevuto dei fondi stranieri in modo illegale. I report pubblicati dalle organizzazioni locali e internazionali hanno denunciato numerose violazioni dei diritti umani da parte del nuovo regime – dalle torture nelle carceri ai crimini commessi durante lo sgombero del sit-in islamista di Rabaa Al-Adawiya – e sono stati duramente criticati dalle autorità egiziane.
Al momento, l’autoritarismo del governo resta comunque in secondo piano a causa anche della credibilità internazionale acquisita dall’Egitto sia con la negoziazione della tregua a Gaza sia nella coalizione contro lo Stato Islamico (nella sua ultima visita al Cairo, il Segretario di Stato americano John Kerry ha parlato di un ruolo chiave da parte dell’Egitto). Uno dei pilastri portanti della repressione nel paese è la legge cosiddetta “anti-proteste”. La norma, approvata lo scorso autunno e che secondo quanto riportato dalla stampa locale potrebbe essere emendata a breve, ha portato a dure condanne contro chi è sceso in piazza a manifestare. Solo ieri, diciassette studenti dell’università cairota di al-Azhar sono stati condannati a quattro anni di reclusione con l’accusa di aver organizzato proteste non autorizzate dalla polizia mentre decine di attivisti in carcere sono in sciopero della fame per chiedere l’abrogazione della legge.