Alla fine la regina è salva. La Scozia ha detto no. Il 55 per cento degli abitanti vuole restare a far parte della Gran Bretagna. I separatisti hanno conquistato le città di Glasgow e Aberdeen, gli unionisti hanno superato il 60 per cento a Edimburgo. Eppure, il giorno dopo, nulla è più come prima. Lo sa bene il premier inglese David Cameron, che ha promesso la devoluzione di maggiori poteri al governo scozzese in materia di tassazione e welfare. Lo sanno bene anche a Bruxelles.
Edimburgo, capitale degli indipendentismi
Ieri Edimburgo non solo è stata presa d’assalto da fotografi e giornalisti in attesa, ma è diventata la mecca di tutti i movimenti indipendentisti. Delegazioni di vari territori che aspirano all’indipendenza dai loro rispetti Stati, sono andati a guardare da vicino come funziona il referendum. Alcuni hanno perfino partecipato alla campagna pro secessione. C’erano i baschi di Bildu che distribuivano volantini insieme ai membri del partito ecologista scozzese. C’era la Lega Nord di Salvini che inneggiava all’autonomia. Gruppi catalani, sardi, perfino del Quebec hanno partecipato la notte del giovedì alla chiusura della campagna, con una riunione straordinaria di tutti i movimenti internazionali. Insomma, dalla Scozia alla Catalogna, passando per le Fiandre, le spinte secessioniste innescate dalla crisi economica che ha travolto l’Europa abbozza destini sempre più incerti. Ma hanno già avuto la loro prima grande chance. E ben presto ce ne saranno delle altre, in primis Barcellona.
La Catalogna: “La strada è segnata”
Mentre l’Assemblea nazionale catalana comprava un’intera pagina sulla stampa nazionale scozzese, con tanto di scritta “Auguri Scozia, il voto è una vittoria. Noi catalani voteremo il 9 novembre”, gli occhi della Spagna erano tutti puntati su Edimburgo. Il premier Mariano Rajoy tuonava dalle Camera dei deputati: “Questi processi sono dei siluri sulla linea di galleggiamento dello spirito europeo, perché l’Unione europea è stata creata per integrare degli Stati, non per frammentarli. Ed è questo il segno dei tempi, l’integrazione e non la divisione”. D’altronde l’altro grande movimento separatista in Europa che vuole il ricorso alle urne è proprio quello catalano. L’80% del Parlament, ovvero tutti i partiti tranne i popolari di Rajoy, vuole emulare la Scozia. E proprio questo pomeriggio il presidente Artur Mas, a capo della coalizione autonomista Convergència i Unió (Convergenza e Unione), sarà in Parlamento per approvare una legge ad hoc per convocare il referendum. “Quello che è successo in Scozia e nel Regno Unito non è una battuta d’arresto per noi – ha detto Mas – perché quello che vogliamo davvero in Catalogna è avere la possibilità di votare, la stessa possibilità”. “Il precedente non è del tutto positivo – ha proseguito il leader – perché non abbiamo una prima esperienza scozzese di indipendenza in Europa”. In ogni caso il referendum “é la strada“. Il premier Rajoy si appresta a fare ricorso davanti al Tribunale Costituzionale, per far dichiarare illegale la legge. Le armi si affilano e il separatismo catalano preoccupa i guardiani dell’euro e le grandi imprese: Barcellona con un Pil di quasi 200 milioni contribuisce al 20 per cento del Pil nazionale. Ma ha anche un buco di bilancio di circa 8,5 miliardi di euro.
Si scalda l’Irlanda del Nord
Gli scozzesi a Belfast da sempre sono visti come dei fratelli. Forse per questo il movimento indipendentista irlandese, il Sinn Fein, ieri è stranamente rimasto in silenzio. C’è stato il sostegno, ma anche una remora come a non voler ingerire in una questione che spetta solo alla Scozia. L’Irlanda del Nord è un altro Paese che con l’Union Jack ha sempre avuto rapporti complicati. È la vera spina nel fianco del governo centrale: nonostante la lotta armata dell’Ira sia ormai relegata al passato – anche se ciclicamente rispuntano fuori gruppi armati denominati Real Ira – la lotta politica del Sinn Fein per conquistare l’unità continua. E Il numero due del partito, Martin McGuinness, ritiene che il Nord potrebbe essere pronto nel 2016.
Belgio, i separatisti: “Il Paese è morto”
Dopo scozzesi e catalani arrivano anche i fiamminghi. Ed un precedente crea coraggio e pressione, fanno sapere dal partito Nieuw Vlaamse Alliantie (Nuova alleanza fiamminga), il più grande al parlamento fiammingo, accanto agli indipendentisti fiamminghi di destra del Vlaams Belang, fautori della separazione dai valloni. Nelle Fiandre Tom van Grieken, candidato al Parlamento per Vlaams Belang lo ha riferito ieri alla stampa belga: “Il Belgio è morto, fin dal 1830 viviamo in uno Stato artificiale. Da soli produciamo l’80 per cento dell’economia. Noi siamo quelli che sovvenzionano la Vallonia”. Motivazioni etno-culturale e certo economica, perché spesso le regioni più ricche spingono a sganciarsi dal resto del Paese.
Baviera e Corsica alzano la testa
È ancora presto per dirlo ma l’indipendentismo mina anche l’unità della Republique. La scorsa primavera a Bastia, capitale della Corsica, un nazionalista, Gilles Simeoni, ha vinto ai ballottaggi. Anche se appartiene alla Francia da oltre duecento anni, l’isola mediterranea è alle prese con le rivendicazioni di un agguerrito movimento indipendentista. Alle ultime elezioni il partito Femu a Corsica, che punta su una piena autonomia, ha ottenuto il 25,9 per cento dei voti. E ieri c’era anche una loro delegazione a sostenere il referendum scozzese. A Berlino invece il separatismo non esiste. Ma esiste Florian Weber della Bayernpartei, un piccolo partito autonomista bavarese che dal 1946 sogna l’indipendenza della Baviera. Ieri, mentre in Scozia si votava, ha espresso il desiderio di diventare, un giorno, ministro degli Esteri della Baviera.
@si_ragu