Prendiamo un caso recente quanto emblematico. Ad aprile è stata annunciata la scoperta del Sofosbuvir, la “medicina miracolosa” che debella l’epatite C: una malattia che conta milioni di contagiati in tutto il mondo e per la quale non esisteva cura. L’annuncio è stato però accompagnato da una pessima notizia: il prezzo del farmaco è estremamente elevato (84.000 dollari per trattamento!) al punto che i servizi sanitari pubblici lo forniscono gratuitamente solo ai casi più estremi. Se non vi si rientra, la guarigione bisogna pagarsela cara e per chi non se la può permettere… buona malattia.
Ma perché un prezzo così astronomico? Forse la produzione del farmaco richiede costose materie prime o processi chimici e macchinari molto sofisticati? Una notizia di tre giorni fa smentisce nettamente questa ipotesi: la Gilead ha deciso che in India il prezzo di un trattamento sarà di 1.800 dollari, ovvero circa il 2% del prezzo esorbitante praticato a decine di nazioni di fascia alta e media. Inoltre, la licenza di produzione verrà ceduta a sette industrie indiane, che realizzeranno impianti in grado di commercializzare il farmaco a questo prezzo presso le 91 nazioni di fascia bassa nelle quali si ritiene che il prezzo “occidentale” non abbia mercato.
Scartati i costi di produzione, potremmo allora pensare che il prezzo esorbitante dipenda dalla necessità di ripagarsi le spese di ricerca sostenute dal produttore: ma anche qui, un semplice calcolo mostra che non può essere questa la spiegazione. Con un guadagno di più di 80.000 dollari a trattamento, basta curare un milione di pazienti per incassare oltre 80 miliardi di dollari: ovvero, dieci miliardi in più dei 70 spesi nel 2012 in totale dalle industrie privata Usa per la ricerca nell’intero campo biomedico! Se pensiamo che i malati nel mondo sono 185 milioni di cui almeno la metà in paesi costretti a pagare il prezzo pieno (in Italia sono 1.200.000), è facile prevedere che per la Gilead si prospettano introiti vertiginosi, ordini di grandezza superiori a qualsiasi cifra possa essere stata spesa per la scoperta.
Ora, vale la pena notare che la ricerca applicata che il privato ha finanziato per ottenere il farmaco non è altro che l’ultimo stadio di una lunghissima staffetta: prima di essa c’è stata la ricerca di base, pagata in stragrande maggioranza con denaro pubblico. Sono state le scoperte e le innovazioni sperimentali e tecniche ottenute in decenni di sforzi e di investimenti pubblici che hanno consentito allo staffettista finale lo sprint che l’ha portato a tagliare il traguardo. Nessun essere senziente darebbe la medaglia per la staffetta solo all’ultimo frazionista: allo stesso modo, è ugualmente insensato che una scoperta di così grande beneficio potenziale diventi il monumento del fallimento di un sistema sociale che garantisce profitti illimitati a pochissimi, a spese della sofferenza e dei sacrifici di una moltitudine di persone.
In questo contesto, è onestamente possibile per un ricercatore chiedere allo Stato soldi per la ricerca semplicemente dando per scontato che ne beneficeranno tutti? In questo vuoto assoluto di idee e politiche sociali, noi ricercatori non possiamo limitarci solo a chiedere i mezzi necessari per il nostro lavoro, giustificandoci invocando a gran voce meritocrazia e valutazione, per poi rinchiuderci nei nostri studi a lavorare dimentichi del mondo esterno. Alla richiesta di fondi va affiancato un consapevole e prioritario impegno a vigilare, dibattere, ridiscutere e cambiare i principi fondanti dell’attuale sistema. Solo così i ricercatori avranno la legittimità e l’autorevolezza necessaria per promettere che ogni soldo investito in ricerca ritornerà raddoppiato sotto forma di benessere diffuso, invece che ad accentuare sempre più discriminazioni ed ingiustizie.