L'occupazione delle donne tra i 15 e i 49 anni è in continuo calo, i contratti atipici vengono troncati quando arriva la maternità, gli asili privati costano e quelli pubblici scarseggiano. L'autrice di "Guerriere - La resistenza delle nuove mamme Italiane" (Chiarelettere) racconta perché in Italia è sempre più difficile fare figli. E pochi sembrano preoccuparsene
Cuore in gola, telefonino all’orecchio, orologio sotto gli occhi. Sono le mamme acrobate di oggi, raccontate dalla giornalista Elisabetta Ambrosi in “Guerriere – La resistenza delle nuove mamme italiane”, appena pubblicato da Chiarelettere (288 pagg., 14 euro). Con dati, analisi e tante storie di vita vissuta, Ambrosi mette in luce gli enormi ostacoli che le giovani madri sempre di più incontrano nel costruire un equilibrio tra lavoro, famiglia, figli e se stesse. Mentre lo Stato sembra lasciarle sole. Ecco un’inchiesta sul tema realizzata dall’autrice per ilfattoquotidiano.it
«Ma come faccio a cercare lavoro se devo allo stesso tempo tenere mio figlio? I criteri dei nidi sono assurdi, il mondo è cambiato, dovrebbero cambiare anche loro». Maria ha 35 anni e un bimbo di un anno. Il suo contratto a termine non è stato rinnovato con la gravidanza e ora è in cerca di un nuovo impiego. Eppure, pur avendo un reddito molto basso – il marito lavora come architetto in uno studio che lo paga 900 euro al mese –, non ha avuto diritto a un posto al nido per suo figlio, perché il comune di Roma, dove abita, assegna il massimo punteggio a genitori lavoratori mentre considera disoccupati e in cerca di lavoro alla stessa stregua.
Maria come Francesca, Anna come Sara: nel nostro paese essere mamme significa dover condurre una vera e propria battaglia contro i mille ostacoli disseminati sul terreno di chi ha deciso di seguire un desiderio tanto semplice quando fondamentale, mettere al mondo un figlio. La prima barriera, oggi più di ieri, è soprattutto quella del lavoro, sempre meno e sempre più a termine: come racconta l’ultimo rapporto annuale Istat 2014, se negli anni della crisi a scendere è stato soprattutto quello maschile, il lavoro delle donne ha tenuto solo per “merito” delle over cinquanta (a causa dell’aumento dell’età pensionabile), mentre il tasso di occupazione delle donne tra i 15 e 49 anni, e in particolare tra le mamme immigrate, è sceso. Lasciando così il nostro paese inchiodato al 46,5% – nel caso delle madri lavora una su due nel centronord, una su tre al sud – contro il 66% e il 60% di Gran Bretagna e Francia (che vantano rispettivamente un tasso di natalità di 1,9 e oltre due figli, mentre l’Italia è ferma a un triste 1,42).
Per le giovani donne italiane, entrate quasi sempre nel mercato del lavoro con un contratto non standard, la situazione lavorativa è peggiorata con gli anni, visto che a partire dal 2012 persino il lavoro atipico, in particolare le collaborazioni a progetto, è ripreso a calare, e oggi non sono poche le mamme che lavorano a partita Iva. «Ma come si fa a fare un figlio, che ha bisogni a tempo indeterminato, se il contratto è a tempo determinato?», spiega Maura, traduttrice libera professionista, una figlia piccola. «In gravidanza ho preso un una tantum ridicolo, mentre quando mi sono fratturata il bacino in un incidente con il motorino sono rimasta a casa, senza guadagnare nulla, perché noi lavoratori autonomi non abbiamo né malattia né tutele di altro tipo. Anzi, lo stato ci considera evasori, e il governo non ci ha concesso neanche gli 80 euro».
Ma il dato che, più di altri, racconta del fallimento delle famose, e mai attuate, politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia sta nell’aumento delle donne che non lavorano a due anni dal parto, cresciuto dal 18,4% del 2005 al 22,3% del 2013: il che significa che, oggi più di ieri, e quasi sempre a causa di contratti a termine, molte donne restano senza lavoro dopo la gravidanza, oppure decidono, scoraggiate, di lasciare. «Chi svolge un lavoro a tempo determinato ha meno probabilità di avere figli nel futuro, mentre tra chi ha figli un’occupazione a termine fa aumentare la tensione in famiglia», scrivono Chiara Saraceno e Manuela Naldini in Conciliare famiglia e lavoro (Il Mulino).
L’altro problema per le madri, specie rispetto alla generazione precedente, è che un reddito solo in famiglia non basta più, soprattutto a causa dei servizi che non ci sono e costringono a ricorrere al mercato. In primo luogo, gli asili nido, fondamentali non solo per le madri, ma anche per lo sviluppo linguistico e sociale dei bambini (tra l’altro sempre più figli unici). La crescita costante delle famiglie che usufruiscono degli asili – più 35,2% – è dovuta infatti, quasi esclusivamente, all’aumento del ricorso al privato, cresciuto vertiginosamente in questi anni (ma l’obiettivo di Lisbona, 33% di bambini al nido, resta lontano). Al contrario, il nido pubblico resta un miraggio, specie al sud – inchiodato al 6,9% di bambini coperti – anche perché manca una legge che obblighi i comuni ad assicurare una copertura minima. Spesso poi, quando c’è, il nido pubblico costa come quello privato, specie nel centronord. «Ho un Isee che non arriva a trentamila euro, eppure lo Stato mi considera ricca, e il mio comune mi fa pagare l’asilo nido quasi cinquecento euro al mese, di cui posso scaricare una parte ridicola», racconta Francesca, milanese, che lavora part time in un’azienda e si è recentemente separata. «Io per prima, come tantissime amiche, devo rinunciare ad avere un secondo figlio. O comunque aspettare che il primo esca dal nido per averne un altro, impensabile pagare due rette».
E poi ci sono i costi dello sport – oggi l’iscrizione annuale a una piscina per un bimbo può arrivare a sei-settecento euro – e quelli delle baby sitter. Necessarie visto che le scuole continuano ad avere orari pressoché inconciliabili con quelli dei genitori che lavorano: quasi tre mesi di chiusura estiva, con genitori costretti a ricorrere a nonni oppure a costosi centri estivi, e fine delle lezioni o a pranzo, oppure, al massimo, alle quattro e mezza del pomeriggio.
Così, la vita quotidiana delle madri diventa un equilibrio faticoso e funambolico, reso possibile solo attraverso il part time (che spesso però si traduce in un dimezzamento del reddito e in una marginalizzazione lavorativa delle donne), oppure, quando c’è, al ricorso al welfare familiare: il famoso aiuto dei nonni, demograficamente però sempre più anziani, i quali contribuiscono con le loro pensioni a pagare rette di asili e vacanze ai nipoti.
Ad aggravare questo quadro a tinte drammatiche, destinato a peggiorare mano mano che le giovani madri lavoratrici di oggi si troveranno ad avere genitori da assistere, ci sono anche stereotipi culturali che faticano a cambiare: come quello secondo il quale, appunto, la conciliazione tra lavoro e cura di bambini e anziani resta un problema delle donne e non, anche, degli uomini. Se è vero infatti che i padri di oggi aiutano più che in passato, una vera simmetria è lontana (come testimonia il ridicolo congedo di paternità obbligatorio di un solo giorno). «Chi ritiene che la madre sia il genitore più competente e indispensabile nei primi anni di vita non solo non spingerà per una divisione egualitaria delle responsabilità di cura, ma riterrà improprio che una madre lavori a tempo pieno (o lavori tout court) quando i figli sono piccoli», scrivono sempre Saraceno e Naldini. Da questo punto di vista la crisi, che spinge a proteggere, anche dalla fatica, il lavoro più forte, cioè quasi sempre ancora quello maschile, non aiuta ad andare in direzione della condivisione.
Così, nel paese della retorica della vita, le culle restano sempre più vuote, e sono troppe le donne e gli uomini che devono, forzatamente, rinunciare a un desiderio di maternità o paternità, reso impossibile da una società che sembra aver dimenticato, aiutata da media e talk show silenti sul tema, che la questione della nascita e della crescita dei bambini, così come della loro qualità della vita – negli ultimi due anni sono raddoppiati i minori poveri, arrivano a oltre un milione e mezzo – è una questione politica e sociale fondamentale.
Il premier Renzi ha promesso mille asili per mille giorni e la sostituzione, annunciata nel Jobs Act, delle detrazioni per il coniuge a carico con un tax credit per incentivare il lavoro femminile. Misure che vanno nella direzione giusta, purché non restino annunci o, peggio, vadano unicamente nella riduzione dei pochi vantaggi rimasti (come le deduzioni per il coniuge, appunto) e nessuna introduzione di nuovi incentivi e tutele: sarebbe davvero troppo per le fragili spalle delle nuove madri, che troppo spesso si sentono inadeguate e incapaci perché dimenticano che ad essere colpevole è soprattutto una società che non le aiuta.