Gli 80 euro hanno incontrovertibilmente sortito almeno un effetto positivo per la stragrande maggioranza che non li ha mai ricevuti in busta paga. Hanno stilato il certificato di morte di ogni ubbia da keynesiani alla porchetta sul moltiplicatore della spesa pubblica. La bacchetta magica delle favole per bamboccioni si è spezzata e il referto autoptico sulle fole fantaeconomiche viene controfirmato anche dai veggenti che avevano scommesso sull’infallibilità dei sortilegi. Da Standard & Poors ad esempio ammettono di aver sovrastimato la manna keynesiana. Su cosa si fondava la sovrastima sballata? Sulla fuffa moltiplicatioria di cui nessuno ha mai verificato i portenti. E persino l’OCSE – altro milieu sensibile al fascino coatto del “paghi uno, prendi tre” incarnato dai venditori di asciugamani nelle fiere in onore del Santo Patrono – si è rappacificato con la realtà. Le sue nuove previsioni con una robusta dose di ottimismo indicano che la caduta del Pil italiano per l’anno in corso sarà dello 0,4%, mentre l’anno venturo la crescita boccheggerà intorno allo 0,1%.
Rottosi l’argine del conformismo sul rancio ottimo e abbondante, è straripata la piena delle previsioni al ribasso, da Confindustria (che conferma le attese dell’ Ocse) al Fondo Monetario Internazionale che un po’ più ottimisticamente prevede solo un -0,1% di caduta per il 2014 (ma si riserva l’ultima parola nelle previsioni ufficiali del World Economic Outook di ottobre). Poi si si attende la Commissione Europea che dovrà valutare a breve la Legge di Stabilità ed il bilancio pubblico italiano. Adottando il dolce stil novo da spin doctor fiorentino, viene da osservare che un nutrito stormo di gufi tartinofagi volteggia sinistro sulla carcassa delle ipertrofiche smargiassate governative.
Tuttavia sarebbe oltremodo ingiusto asserire che la colpa del governo è solo l’immobilismo e la strategia ondivaga dopo le promesse di una riforma al mese sparate a petto in fuori. Invero, il governo qualche misura è stato in grado di prenderla. Peggiorando la situazione.
Ad esempio le nuove raffiche di inasprimenti fiscali dovuti all’introduzione della Tasi in tandem con le prossime revisioni del catasto hanno contribuito a deprimere i consumi. Ma tra i capolavori di dilettantismo va annoverato il decreto Poletti, varato a marzo ed entrato in vigore a maggio. Ai fini pratici è un guazzabuglio di annunci, tra cui quello sugli ammortizzatori sociali (per i quali non ci sono fondi) e nuovi contratti di lavoro i cui dettagli vengono taciuti (qui trovate la relazione al Parlamento).
Ora mettevi nei panni di un imprenditore. Anche se vi cogliesse l’impellente voglia di assumere (o di fare un investimento), la sopprimereste in attesa di conoscere i termini veri (non i princìpi aulici) della riforma. Un salto nel buio legislativo è l’ultima cosa che un’impresa di questi tempi si sente di fare. Quindi da marzo ogni attività è rimasta di fatto bloccata. Però i grandi strateghi di Palazzo Chigi, dei ministeri economici (col coretto di opinionisti all’ingrosso) di fronte al Pil che collassa e alla disoccupazione che sale intonano il Salmo Doloroso di Messer Tremonti, maledicendo l’intransigente austerità della Germania.
Ordunque, fallito miseramente il programma dei cento giorni, Renzi ha partorito il colpo di genio: annunciare al Parlamento e allo volgo tutto, la Fase 2, vale a dire la buccia di banana su cui sono scivolati Berlusconi (ricordate le panzane sulla frustata?) e le buonanime politiche di Monti e Letta. L’unica novità consiste nel fatto che la Fase 2 di Renzi dovrebbe dipanarsi in mille giorni. Enunciata in idioma nazional popolare la mistica dei mille giorni suona all’incirca come “Campa cavallo che il decreto cresce”.
A questo fulgido orizzonte non crede ovviamente nessuno, perché il vero nocciolo del problema che accomuna tristemente Renzi, Letta, Monti e Berslusconi è la mancanza di un consenso in Parlamento sulle riforme serie. Purtroppo le maggioranze in Italia in materie economiche si coagulano esclusivamente sullo status quo e sui veti reciproci. Appena si tocca un tassista, un avvocato, un pensionato d’oro, un alto burocrate, una municipalizzata o una delle tante categorie protette da decennali stratificazioni legislative, scatta la reazione talora virulenta, talora sotterranea, ma sempre efficace. Passata la festa declamatoria e gabbato lo Cottarelli, a parte qualche limatura, la foresta degli interessi inscalfibili rimane pietrificata.
Non è di sicuro la mancanza di soluzioni ragionevoli, insomma, la maledizione italiana, ma il pervicace consenso politico-burocratico contro di esse. Renzi per di più ha un partito spappolato in sei o sette correnti in perenne lotta e perenne mutazione come il virus di Ebola. Senza contare un gruppo parlamentare nominato in massima parte dal clan Bersani che lo considera, nella migliore delle ipotesi, un usurpatore o un adepto della Thatcher, come ha tenuto a ribadire la segretaria ombra del Pd, Susanna Camusso.
Dal carretto senza ruote del Vincitore, il giglio magico asserragliato a Palazzo Chigi sembra aver concepito una brillante operazione per tenersi a galla. Fare finta, sull’esempio di Monti e Letta, di affrontare qualche nodo approvando provvedimenti inutili (privi di decreti attuativi), tipo lo Sblocca Italia o la “riforma della Pubblica Amministrazione”. Ma soprattutto cercare di infinocchiare le istituzioni internazionali con qualche sbrodolata sulla riforma scolastica, sull’art. 18 e sul mercato del lavoro. Con questo viatico intendono presentarsi a Bruxelles piagnucolando (sulla falsariga di Berlusconi a Cannes) di aver varato le riforme e producendosi nella sceneggiata sulla flessibilità in modo da poter comprare i voti per le prossime politiche (qui Mario Seminerio riporta godibili dettagli), come già fatto alle europee con spese senza copertura. Magari strombazzando in campagna elettorale i 300 miliardi di “investimenti europei” che in Italia non verranno mai realizzati, come sa bene chi ha compilato un’analisi di impatto ambientale o ha partecipato ad una conferenza di servizi o semplicemente ha sentito vagamente parlare di TAV o di Expo.
Difficile che con questi chiari di luna a Francoforte e Bruxelles allentino le briglie, anzi qualcuno inizia a proporre che invece di accaparrare titoli di stato sopravvalutati (il tanto agognato Quantitive Easing), la BCE farebbe bene a vendere quelli acquistati ai tempi di Berlusconi. Tanto per instillare una minima, ma sana, dose di realismo nel Circo di Renzusconia.