La questione dell’elusione fiscale dei colossi di Internet, affrontata nel post precedente, è tutto sommato la meno devastante delle conseguenze legate alla eventuale (?) entrata in vigore del Ttip. Peggiori, per esempio, potrebbero essere le conseguenze legate alla neutralità della Rete. Il concetto di Net Neutrality è troppo spesso ridotto a una questione per anime belle, che vedono in Internet uno spazio democratico (e così non è) ed egualitario (tantomeno) in cui esprimersi nel ruolo di cittadini globali.

Nel dettaglio, la neutralità della Rete è riassumibile così: nella gestione del traffico, tutti i siti e i servizi devono essere gestiti allo stesso modo. Questo significa che i provider (i fornitori di connessione) devono garantire i servizi per il collegamento a un piccolo sito web di un’associazione parrocchiale esattamente come fanno per YouTube. Nella gestione del traffico non è possibile quindi fare differenze o creare corsie preferenziali. Si tratta di una sorta di “regola non scritta”, che fino a oggi è stata tutelata a livello regolamentare in tutti i paesi, con maggiore o minore impegno ed efficacia.

Perché questo principio è importante? In primo luogo per una questione di astratta “parità” tra chi anima Internet. Ma non solo. L’analisi dei dati per valutare eventuali priorità, per esempio, porterebbe a una riduzione della privacy di chi si collega alla Rete. Se si dovesse ammettere la possibilità di un trattamento diverso dei flussi di dati a seconda della loro provenienza e destinazione, però, la Rete subirebbe anche una sorta di balcanizzazione ben poco controllabile. Si darebbe il via ad accordi tra fornitori di servizi (ad esempio YouTube) e i vari provider (ad esempio Telecom) in cui il secondo, a fronte di un corrispettivo, offrirebbe una corsia preferenziale per i dati del primo. Risultato? Il caos. In primo luogo perché ci troveremmo con siti e servizi “veloci” e altri “lenti”. Con l’aggravante del fatto che i flussi di dati viaggerebbero in maniera diversa a seconda del provider. I consumatori si troverebbero quindi a dover considerare la qualità del collegamento in base all’utilizzo che ne vogliono fare. Guardo tanti video in streaming su YoutTube? Scelgo l’operatore A. Uso il peer to peer? Scelgo l’operatore B. Uso di più iTunes? Scelgo l’operatore C. Se poi pensiamo che il tutto varia a seconda del percorso effettivo che i dati fanno (da un server di Palo Alto alla provincia di Milano i passaggi sono parecchi) il panorama si complica ulteriormente.

La possibilità di offrire priorità a un servizio piuttosto che a un altro, ha un ulteriore effetto, decisamente più nocivo: creerebbe infatti una barriera d’ingresso che penalizzerebbe eventuali concorrenti o servizi emergenti. Il nuovo Facebook o il nuovo Twitter di turno si troverebbe, in pratica, a doversi confrontare con un gap ben difficile da colmare. Immaginiamo per esempio un servizio cloud, che si troverebbe a funzionare molto più lentamente dei suoi concorrenti già accreditati. Insomma: il superamento della Net Neutrality porterebbe a rendite di posizione e a una sostanziale cristallizzazione del panorama esistente.

Ora questo principio viene messo in discussione da più parti (sia dai provider che dai fornitori di servizio) e il suo superamento potrebbe avvenire negli Stati Uniti. Le pressioni di chi vede la possibilità di una nuova forma di business ha portato la Federal Communications Commission (Fcc), l’agenzia che si occupa della regolamentazione delle comunicazioni negli Usa, a ipotizzare un superamento della neutralità della Rete. Molti siti, tra cui Netflix e Mozilla, hanno espresso la loro contrarietà e avviato campagne di sensibilizzazione sul tema, ma l’opinione pubblica sembra ancora stentare ad appoggiare una battaglia i cui contorni non sono semplicissimi da cogliere.

In Italia, per il momento, la neutralità della Rete non è sancita da norme chiare. C’è un disegno di legge del 2009, rimasto però lettera morta. Come mi ha confermato tempo fa Albert Zammar di Riverbad Technology, una società che si occupa proprio di verificare le modalità della gestione del traffico Internet in Italia, il tutto è lasciato sostanzialmente alla “buona volontà” di aziende e fornitori di servizi. In pratica i vari soggetti si controllano a vicenda per verificare che nessuno alteri le priorità del traffico. L’unico soggetto che esegue una forma di controllo è Agcom, con l’unico precedente di una multa a Tele2 per aver penalizzato il traffico peer to peer delle connessioni che gestiva. Un sistema che non dà garanzie e che andrebbe regolato quanto prima.

Con l’arrivo del Ttip, però, potrebbe risultare impossibile e le cose potrebbero cambiare addirittura in peggio. Non solo perché un’eventuale legge che sancisca la Net Neutrality potrebbe essere impugnata dalle aziende statunitense sulla base della famigerata clausola di salvaguardia degli investimenti. Il trattato, infatti, prevede anche l’istituzione di una commissione che dovrebbe “armonizzare” i regolamenti tra Usa e Unione Europea. Un bel trucchetto che porterebbe, in sostanza, a delegare agli Stati Uniti le decisioni proprio in merito a questioni come la neutralità della Rete o, per lo meno, a sottrarre al dibattito pubblico le scelte in questo ambito. Tutto ovviamente in nome del business

(continua)

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