Corleone è uno dei posti più belli dove mi sia mai capitato di esibirmi, e vi consiglio decisamente di visitarla per il panorama, l’arte e la cultura che racchiude. I farabutti, che sicuramente ancora ci abitano, sono in assoluta minoranza – numerica e sociale – rispetto al gruppo di giovani intellettuali che ho conosciuto e che animano la vita della cittadina.
In quanto meridionale e meridionalista, sono particolarmente sensibile al tema della lotta alle mafie, e non mi sono lasciato sfuggire l’occasione di una visita privata all’ex dimora di Bernardo Provenzano, adesso sequestrata e trasformata in museo/laboratorio della legalità. Ma il momento che mi ha fatto più riflettere è stato appena siamo usciti, quando Marilena – la mia ottima guida nonché attivista del riscatto corleonese – mi ha raccontato di come i familiari di Provenzano, in realtà, si siano appena spostati di mezzo isolato. Quindi capita che un parente stretto di Binnu, per spirito di sfida o semplicemente per far notare il proprio presidio sul territorio, fermi qualche ignaro visitatore con una scusa, e si faccia trovare dal personale del museo a chiacchierare amabilmente proprio sulla soglia della casa a loro sequestrata.
Marilena porta un cognome ingombrante, quello della moglie di Riina e del sanguinario “don Luchino”, con cui è imparentata alla lontana (ovviamente le due famiglie hanno fatto scelte di vita ben diverse). In paese capita di incontrarsi, e gli sguardi delle donne di mafia si appuntano soffocanti su di lei. “Proprio tu”, sembrano dire. “Proprio tu”. Ma Marilena è serena. Per quanto il male della sua (della nostra) terra sia vicino nel senso più letterale possibile, sa bene che non bisogna concedergli un millimetro. Sorrideva mentre mi raccontava tutto questo.
Oggi ad Hebron (o Al-Khalil, come la chiamano da queste parti) mi è venuta in mente Marilena, insieme a Cosimo, Liborio e tutti gli altri. Il contesto è diversissimo, con la città divisa in due da uno squarcio sorvegliato da torrette e soldati israeliani coi mitra. Gli insediamenti illegali penetrano fin nel cuore dei quartieri popolari, portando a risultati che sfiorano l’assurdo. In una parte del mercato, i negozi su strada sono palestinesi, ma i piani superiori sono stati inglobati dai settlements dei coloni. Gli estremisti ebraici erano soliti bersagliare dall’alto venditori e clienti con pietre e grossi frammenti di vetro, quindi l’amministrazione palestinese si è dovuta attrezzare, ed adesso c’è una rete sopra il mercato che blocca i sassi più grandi. Ma chiaramente una rete non può fermare i liquidi, a partire dall’urina fino agli urticanti e agli acidi: l’occupazione si impone a forza di proiettili, ma anche di secchiate di piscio.
Incontriamo i ragazzi di Youth Against Settlements, ci spiegano molte cose con poche parole: “Noi palestinesi di Hebron siamo sottoposti alla legge marziale, mentre gli israeliani sono soggetti al diritto comune. Questa è una definizione perfetta di apartheid: due gruppi che abitano lo stesso territorio ma sono soggetti a leggi diverse”.
Anche qui il male è fisicamente vicinissimo, anche qui ci sono giovani che hanno il coraggio ed il sorriso di quelli di Corleone. Lo ripeto ancora una volta perché sia chiaro: la mafia e l’occupazione israeliana sono due cose diverse e non sto tentando un confronto. Ma sarei felice se un domani si dicesse di Hebron quello che possiamo dire già oggi di Corleone: una città un tempo simbolo di oppressione, oggi liberata e fiera.