Le esperienze di chi, grazie alla norma dello Statuto dei lavoratori, è riuscito a portare l'azienda in tribunale: una donna cacciata alla vigilia del matrimonio e sostituita, un dipendente allontanato con la scusa della crisi quando l'azienda andava bene
Quando c’era l’articolo 18 poteva capitare di essere licenziati per il solo fatto di andarsi a sposare. Oppure, che una volta licenziato un lavoratore, la ditta ne assumesse altri, facendoli lavorare 12-13 ore al giorno. A quel tempo, molto spesso il giudice reintegrava il dipendente. Con le “riforme di Renzi” questo non accadrà più. Le storie di coloro che hanno utilizzato l’articolo 18 per difendere il proprio posto di lavoro si possono leggere nelle sentenze dei Tribunali del lavoro. Sono episodi di vita quotidiana nota a chiunque abbia davvero lavorato (e non è certo il caso del premier).
Quel matrimonio non s’ha da fare
Si prenda, ad esempio, il ricorso presentato a Mantova dopo l’approvazione della nuova legge Fornero (luglio 2012). La lavoratrice affigge le pubblicazioni di matrimonio a marzo del 2013. Deve sposarsi ad agosto. Il 16 luglio l’azienda la licenzia. Motivo ufficiale: un calo della clientela. Subito dopo il licenziamento, però, la titolare assume una nuova commessa. Il Tribunale ha dichiarato nullo il licenziamento, con sentenza del 25 marzo scorso, perché “in concomitanza di matrimonio” e ha disposto il reintegro della lavoratrice. La vicenda della Ivri, leader italiano della vigilanza privata, è ancora più eclatante. Il licenziamento viene comminato per “motivo oggettivo”, determinato dalla perdita di alcune commesse e dalla “contrazione dell’attività imprenditoriale”. Il giudice, però, si accorge che la società, poco prima di disfarsi del dipendente, “dichiarava che il fatturato era in crescita”. Dai 200 ai 300 milioni di euro grazie all’acquisizione di clienti come Unicredit, Lottomatica, Carrefour. Non solo, pochi mesi dopo il licenziamento, assumeva alcuni dipendenti alle stesse mansioni e richiedeva, a causa della forte mole di lavoro, un orario giornaliero “anche di 12/13 ore”. Il licenziamento viene annullato e il dipendente reintegrato al proprio posto di lavoro.
Se dodici ore vi sembran poche
Il signor M.G. invece, ha ormai una certa età. Lavora presso la Z.W. Dal 1981 con la qualifica di operaio edile di 2° livello, “addetto al montaggio e smontaggio di ponteggi, attività di rimozione, smaltimento e bonifica dell’amianto”. Lavoro duro, quindi, che dopo 35 anni di attività produce inevitabili acciacchi. E così, MG ottiene una prescrizione medica che gli vieta di sollevare pesi oltre i 12 chili. Il 18 febbraio 2013 l’azienda dispone il licenziamento “per inidoneità fisica alla mansione”. Per il giudice, però, quel licenziamento è discriminatorio perché avviene in conseguenza di una malattia professionale, riconosciuta come tale dall’Inail e che rientra “a pieno titolo” nel novero delle malattie invalidanti, “assimilabili al concetto di handicap”. Il licenziamento è quindi nullo per “la natura discriminatoria”.
Attento a come rispondi alla email del capo
Lo stesso avviene nel caso di P.C. Il lavoratore è in azienda dal 2007 e ha la qualifica di Responsabile del reparto qualità. Non ha mai avuto reclami o precedenti disciplinari, “neppure minimi”. Nel luglio del 2012 si vede recapitare una mail dal suo superiore che gli chiede di controllare dei disegni che nel frattempo sono stati modificati. P.C. risponde: “Confido per martedì 24 luglio di avere i rilievi con le tempistiche di modifica dei programmi”. A quel punto, il suo capo replica: “Non devi confidare, devi aver pianificato la data. Se hai dato come data il 24 luglio deve essere quella. Altrimenti indichi una data diversa che non è confidente ma certa, per favore”. Lettera che fa infuriare il dipendente il quale risponde: “Parlare di pianificazione nel gruppo è come parlare di psicologia con un maiale, nessuno ha il minimo sentore di cosa voglia dire pianificare una minima attività in questa azienda. Pertanto, se Dio vorrà, per martedì avrai tutto quello che ti serve”. Risposta nervosa, ovviamente, che fa scattare la lettera di licenziamento. Ma per il tribunale, da una “serena e complessiva valutazione del fatto” emerge la “modestia dell’episodio in questione, la sua scarsa rilevanza offensiva e il suo modestissimo peso disciplinare”. Insomma, il dipendente si è sempre comportato bene e per ragioni interne all’azienda è sbottato di fronte a una lettera che lo stesso giudice considera “inutilmente denigratoria”. Di storie così se ne possono trovare migliaia.
Quando arriva la lettera senza preavviso
Altre ancora sono cominciate a giungere presso la nostra redazione. Come quella di Mauro, dal 2005 al 2010, tecnico commerciale presso un’azienda di informatica con meno di 15 dipendenti. Al rientro delle ferie estive, nell’agosto 2010, “il datore di lavoro mi consegnò una lettera senza preavviso di cessazione del rapporto lavorativo”. Licenziato con una “motivazione fasulla”. Sotto i 15 dipendenti non c’è l’articolo 18 e quindi Mauro si è spostato in un call center come lavoratore a progetto. Ora è disoccupato. Domenico, invece, era dirigente di un’azienda farmaceutica. Il direttore gli chiede un incontro e gli consegna una lettera di licenziamento parlando genericamente di “riorganizzazione”. “Pensai di rivolgermi a un Caf, ma poi andai da un avvocato. Il quale fu poi contattato dall’avvocato della controparte per trovare una transazione economica. Oggi dovremmo essere in una fase conclusiva, visto che pare abbiano accettato la nostra richiesta”. L’articolo 18 ha questo pregio: è un deterrente per evitare i comportamenti peggiori. Forse anche per questo Renzi vuole abolirlo.
Da Il Fatto Quotidiano del 21 settembre 2014