L’anno scorso, per la prima volta, la Cina ha superato l’Unione Europea nei livelli di emissioni inquinanti pro capite, contribuendo così a un nuovo record dei gas serra a livello mondiale. La notizia arriva alla vigilia del primo round di colloqui sul clima voluti da Ban Ki-moon dopo la scadenza del Protocollo di Kyoto (2012) e il fallimento della conferenza di Copenhagen (2009) che doveva trovare proprio nuovi vincoli stringenti per il post-Kyoto. Qualche anno fa, la Cina aveva già superato gli Usa come emissioni complessive, ma nelle dispute sulle misure per arrestare il global warming, Pechino ha sempre sostenuto la tesi secondo cui le emissioni pro capite dell’Occidente superano di gran lunga quelle cinesi e quindi sono Usa ed Europa a dovere per primi adeguarsi a misure anti-inquinamento. Tanto più che proprio gli Usa non hanno mai aderito a Kyoto. In questa rivendicazione, Pechino ha sempre fatto la parte da capofila ai Paesi emergenti e sostenuto una tesi piuttosto semplice: prima raggiungiamo il vostro livello di sviluppo, poi ci adeguiamo ai vostri stessi parametri. Purché diate il buon esempio.
Sta di fatto che, da allora, tutti procedono più o meno con misure unilaterali e in ordine sparso. Ora, proprio alla vigilia del summit, una ricerca britannica, non si sa quanto “a orologeria”, sancisce che un cinese produce più emissioni di un europeo: 7,2 tonnellate di anidride carbonica contro 6,8. Gli statunitensi restano i peggiori inquinatori, con 16,4 tonnellate, mentre ogni indiano emette solo 1,9 tonnellate. Lo studio è del Tyndall Center for Climate Change Research, University of East Anglia, e del College of Mathematics and Physical Sciences, University of Exeter. Precedenti ricerche avevano stabilito che Cina e Stati Uniti insieme rappresentano circa il 45 per cento di tutte le emissioni di anidride carbonica; Unione Europea, India, Russia, Giappone e Brasile sono tra gli altri top emettitori.
Non sono questi studi a smuovere Pechino, tant’è che il presidente Xi Jinping, così come il premier indiano Narendra Modi, non parteciperà al summit (ci andrà il vice-premier Zhang Gaoli). Tuttavia, venerdì scorso, le autorità cinesi hanno diffuso il proprio piano nazionale 2014-2020 per combattere il cambiamento climatico, che prevede l’istituzione di un mercato dei crediti carbonio nazionale entro il 2016 (per ora esistono sette progetti locali) e il taglio del 50 per cento delle emissioni nell’industria, rispetto al livello del 2005. La Cina multa già da tempo le aziende più inquinanti, anche e soprattutto per ragioni interne: l’ormai insostenibile questione ambientale che produce sempre più “incidenti di massa” (cioè proteste anche violente che coinvolgono più di cento persone).
Insomma, il riconoscimento del problema c’è ma si resta nell’unilateralismo. Non riconoscendo le responsabilità dello sviluppo capitalista nella questione clima (sottolineate dalla scrittrice-attivista canadese Naomi Klein nel suo ultimo libro, This Changes Everything: Capitalism vs The Climate), va molto di moda, su entrambe le sponde del pacifico, il “mercato delle emissioni”, cioè la soluzione compatibile con quel modello.