Specchio e finestra (foto © Leonello Bertolucci)

Una grande mostra di Henri Cartier-Bresson sta per approdare a Roma (all’Ara Pacis, proveniente dal Centre Pompidou di Parigi), e dunque eccomi qui a… non parlare di Cartier-Bresson.
Beninteso, considero HCB un “padre fondatore” e un immenso fotografo, ma non provo neanche di striscio a dire qualcosa che non sia già stato detto: impresa disperata.
La sua figura mi dà però lo spunto per associare due parole: fotografia e individualismo.

La parola individualista, nell’accezione più comune, ha una valenza negativa. Da non confondere con l’egoismo, l’individualismo ha però spesso una sua “forma etica” di affermazione della libertà attraverso cui perseguire risultati che poi, di fatto, possono giovare anche ad altri.
Certamente un individualista crede molto in se stesso, si ritiene unico motore possibile della propria realizzazione, ma ciò non gli impedisce di rispettare gli altri. Contrariamente all’egoista, che è disposto a distruggere gli altri se visti come ostacoli, in una brama di potere o di possesso assai più irrazionale e patologica.

Il mestiere più individualista che conosco è quello del fotografo: e non esclusivamente nella figura un po’ romantica del reporter – borsa in spalla e scarpe consunte – che accompagnato solo dai suoi occhi e dai suoi pensieri attraversa la Storia e le storie. E’, a ben guardare, un individualista anche il fotografo – per dire – di moda che, come un regista, coordina e accentra attorno a sé molte persone, in un set vero e proprio, rimuginando tuttavia visioni che abitano in lui solo (stilista e agenzia permettendo…).

L’individualismo del fotografo è però un ossimoro: egli è tanto più individualista e solitario quanto più sente gli altri, che hanno solo una “colpa”: sono i soggetti delle sue fotografie.
In tutto questo c’è un tremendo, ineludibile e complesso cortocircuito. Se il fotografo s’innamora dei suoi soggetti, smette di essere il professionista lucido e deraglia in un bellissimo ma pericoloso approccio viscerale. Il fotografo sa che la sua possibilità di essere utile agli altri, paradossalmente, passa dalla sua fedeltà all’individualismo, inteso però come integrità, coerenza, concentrazione, silenzio e libertà: una strana razza di “monaco anarchico” (ciò che forse era anche Cartier-Bresson stesso).
E’ chiaro che non sempre le cose stanno così, e che di cialtroni, millantatori, pazzoidi e disonesti muniti di fotocamera ce ne sono in abbondanza.
Se parliamo tuttavia della maggior parte dei grandi fotografi, o basterebbe dire dei fotografi veri, un’indole solitaria e intransigente sembra connaturata con questa pratica.

Quanto poi tutto questo, con l’andar del tempo, possa introdurre una deriva di scetticismo e di pessimismo, è argomento non secondario: la biografia di Don McCullin (forse il più grande fotografo di guerra), per esempio, è esemplare a tal proposito.
Qualcuno ha paragonato la vita di un fotografo ad un’ininterrotta seduta psicanalitica, in cui egli si guarda continuamente dentro per dare un senso al suo mestiere, quello di guardare fuori.
E si sa, guardarsi dentro è sempre complicato, spesso doloroso, e sostanzialmente scoraggiato dalle logiche produttive che preferiscono uomini-macchina, nella fattispecie uomini-macchina fotografica (anche l’editoria è un’industria…).
Dunque perdoniamo ad un fotografo il suo magnifico individualismo, un certo orgoglio e magari una quota d’illusione: tutto sommato è un idealista. I veri pericoli arrivano da altri tipi di fotografi: quelli cinici, quelli in mala fede, e peggio ancora quelli lobotomizzati.

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