E’ stupefacente che il dibattito sia ritornato ad una vecchia diatriba: articolo 18 sì, articolo 18 no! Ma i fattori per la ripresa sono altri: gli investimenti privati e pubblici in Ricerca & Sviluppo, il credito alle imprese, uno spirito di intrapresa, la generazione anziana che gestisce le leve economiche. Lasciate stare l’articolo 18.
D’altra parte, prospettive internazionali autorevoli non considerano il tema rilevante. Ad esempio l’indice Doing Business della World Bank (organizzazione non sospetta di simpatia per i lavoratori italiani scansafatiche) non prevede il licenziamento ad nutum, né la regolamentazione del lavoro tra i dieci fattori di competitività dei paesi. Comunque la classifica dell’Indice 2013 ci relega al terzultimo posto tra i paesi OECD e al 65° sul totale dei 189 paesi in classifica. Strano, nessuno ha informato la World Bank che una parte della nostra elite è al contrario ossessionata dal mantra dell’articolo 18? Personalmente nella mia lunga esperienza di consulente non ho mai visto un consiglio di amministrazione esitare su investimenti o acquisizioni, colpito dal vincolo angoscioso dello Statuto dei lavoratori.
Perciò ho trovato confortante l’opinione di Giorgio La Malfa, economista di formazione Banca d’italia, che, in una lettera al Corriere della Sera, afferma deciso: riformare il lavoro non è una priorità! In conclusione la domanda sembra essere: la possibilità di licenziare può rimettere in moto l’economia italiana? Un articolo del Financial Times, un salotto buono del capitalismo anglosassone, lo esclude così come ci dice il nostro buon senso. Mi auguro che il governo faccia un passo indietro sulla decisione. Dopo la riforma Fornero, diminuire ulteriormente le protezioni del lavoratore è doppiamente sbagliato: in un momento di crisi non aiuta i giovani ad entrare in azienda e attenta alla sicurezza degli occupati.