Da pochissimi giorni Leonard Cohen ha festeggiato i suoi ottant’anni e il suo nuovo album in studio, “Popular Problems” – appena uscito per la Columbia Records – è l’ennesimo regalo che il poeta e cantautore canadese dona ad un’intera umanità che non si rassegna ad un’esistenza priva di slanci e di continua ricerca. Con la sua impeccabile eleganza – ereditata dal padre – e l’espressione di chi ha la consapevolezza che il tempo possa essere modellato a proprio favore, Cohen ha attraversato quasi cinquant’anni di storia della musica, dipingendo un’umanità in continua tensione tra le incertezze dello spirito e gli infiniti contrasti della carne. La sua “Hallelujah” raggiunse il meritato successo solo grazie alla struggente versione che ne fece Jeff Buckley e probabilmente ancora oggi sono molti quelli che erroneamente pensano che il brano appartenga a quest’ultimo.
Leonard Cohen ha avuto una profonda influenza anche sulla scrittura di Fabrizio De André, che oltretutto ne tradusse diversi brani (“Suzanne”, “Giovanna d’Arco”, “Nancy”). La lista degli artisti che in un modo o nell’altro sono stati mossi dalla poesia di Cohen sarebbe troppo lunga, lo stesso Dylan ha ammesso la propria profonda ed incondizionata stima nei confronti del cantautore canadese. A ottant’anni la voce baritonale di Cohen si manifesta in tutta la sua struggente bellezza. Nel suo nuovo album “Popular Problems” lo scenario evocato è tutt’altro che idilliaco: uccisioni, stupri, guerre, genocidi, catastrofi naturali; un quadro completamente diverso dal precedente album – “Old Ideas” – dove riflessioni sull’esistenza, sulla fede e sullo scorrere del tempo erano le protagoniste. In questo nuovo lavoro ci sono riferimenti all’11 settembre (“A Street”), all’uragano Katrina (“Samson in New Orleans”), agli scenari di guerra che continuano a tormentare vittime innocenti (“Nevermind”), ed ovviamente non mancano brani dove sono protagoniste le lacerazioni interiori e le disillusioni d’amore. “You got me singing/ Even tho’ the news is bad/ You got me singing/ The only song I ever had” questi sono i primi versi del brano che chiude l’album e basterebbero da soli a spiegare il continuo peregrinare di un uomo alla ricerca di quella “goccia di splendore”, di quella “crepa dalla quale filtra la luce”, che ha in sé almeno una piccola parte di risposte.
Solo se si entra nello scorrere lento della poesia di Cohen si potrà riuscire a specchiarsi in una dimensione interiore che troppo spesso tendiamo a marginalizzare fino a dimenticarla; ma per farlo bisogna cambiare passo: “I’m lacing up my shoe/ But I don’t want to run/ I’ll get here when I do/ Don’t need no starting gun”, recitano i versi dell’iniziale blues di “Slow”, brano che viaggia su un doppio binario interpretativo, con doppi sensi che rimandano alla sfera sessuale. “Almost Like the Blues” è invece una processione del dolore, mitigata solo da un arrangiamento musicale che rimane sospeso tra tastiere, fiati e percussioni. Il disco, prodotto da Patrick Leonard (storico collaboratore di Madonna) presenta arrangiamenti che il più delle volte riescono ad avvolgere perfettamente la voce e le storie narrate da Cohen, eccezion fatta per la svolta country (con tanto di coretti) in “Did I Ever Love You”, che appare tanto spiazzante quanto imbarazzante, mentre invece l’utilizzo del violino è perfetto in ogni situazione del disco.
Ci sono punte di bellezza che fanno chinare la testa, come “Samson in New York” che inizia riprendendo un inno gospel per poi venire avvolta dalla lenta melodia di un violino e un caldo coro gospel, mentre la domanda che non troverà mai risposta viene riproposta: “And we who cried for mercy/ From the bottom of the pit/ Was our prayer so damn unworthy/ The Son rejected it?”. La purezza e l’infinita saggezza che sbocciano in “Nevermind” lasciano spiazzati: in un perfetto scenario incatenato all’attualità si eleva – sostenuto da un canto di pace intonato in lingua araba – l’etica intrisa di compassione di un uomo fuori da ogni tempo, che ha scolpito nel proprio cuore con “lettere marchiate a fuoco”, un’inclinazione che va oltre ogni credo: “I could not hate/ I tried I failed”. “Popular Problems” è un nuovo dono prezioso da parte di un uomo che continuerà a offrire bellezza a chi avrà la capacità di rallentare il proprio tempo. E che continuerà a cantare la sua canzone, “You got me singin/ The Hallelujah hymn”.