Ripetiamo la stessa parola, ancora e ancora. Diventerà un suono, perdendo il suo significato. Prendiamo un indagato, un condannato, un personaggio politico imbarazzante e facciamone la caricatura, buffa e popolare di un cabaret: diventerà un soggetto da t-shirt, spostando l’attenzione dalla sua natura di parassita a quella di testimonial della simpatia: una macchietta.
Prendiamo la giustizia, la legge che è uguale per tutti, che ad ogni sentenza emessa le viene attribuito un uso politico della condanna: si otterrà lo svuotamento del suo ruolo. Prendiamo onorevoli e senatori che passano troppo tempo in televisione: otterremo soggetti che sottraggono tempo al lavoro per cui sono pagati e diventeranno personaggi da talk show.
Prendiamo l’Italia dei condoni, delle sanatorie, delle condanne in via definitiva ai servizi sociali, dell’evasore che per legittima difesa frega il prossimo: otterremo l’alibi a fare altrettanto, rendendo l’onestà un male da curare.
Le belle parole, come gli slogan, gli hashtag, gli aforismi, i tweet, le frasi ad effetto che ripetiamo come tormentoni…sono la via più breve per spolparle di quel significato con cui forse erano nate con un senso reale.
Prendiamo un presidente della Repubblica che, in occasione dell’inaugurazione dell’anno scolastico 2014/2015 al Quirinale, davanti a centinaia di studenti troppo giovani per capirne il linguaggio inutilmente forbito, tuona dicendo: “Basta corporativismi e conservatorismi”. Presidente Napolitano, possiamo cominciare dal togliere (per dirne una) quei tre chilometri di spiaggia off-limits di Ostia per i dipendenti del Quirinale? Presidente, diamo un senso alle parole. Non un suono.