Giacca e cravatta le ha messe tutte le mattine per anni, quando lavorava in banca. E sui campetti nei quali allenava alla sera, era piuttosto sconsigliato presentarsi vestiti di tutto punto. Perché la polvere e il fango avrebbero insudiciato il vestito migliore. Dev’essere per questo che Maurizio Sarri si è presentato in pantaloni di tuta e t-shirt anche nella notte in cui ha messo sotto scacco il Milan.
Tredici anni dopo l’addio alla banca, l’allenatore venuto dalle serie inferiori ha fatto sudare le proverbiali sette camicie – quelle che lui non usa più – a Filippo Inzaghi, che invece con il bianco ci va a nozze e ha rischiato d’andarci pure, in bianco, nella notte del Castellani. Sarebbe stato il delitto perfetto: l’uomo dalla gavetta infinita che incarta l’enfant prodige delle panchine italiane. Con quella che dicono sia la sua arma migliore, i calci piazzati. Maurizio Sarri da Vaggio, tra Pian di Scò e Figline Valdarno, terra di ciclisti (in zona è nato Franco Chiccioli, campione al Giro ’91), si narra abbia 33 schemi per i suoi uomini quando c’è da battere un calcio d’angolo o una punizione. È così che Lorenzo Tonelli batte Abbiati. E sempre da calcio piazzato nasce il 2-0 di Manuel Pucciarelli pochi minuti dopo.
Com’è finita lo sappiamo. Come sarebbe potuta andare anche. Se solo Ciccio Tavano non avesse sbagliato il contropiede della gloria a inizio secondo tempo. O se l’arbitro avesse fischiato il fallo di mano di Bonera, ha tenuto a precisare Sarri nel post partita. Perché lui, l’antidivo della panchina che dicono assomigli ai divi (Jean Reno, ma anche Fortunato Cerlino aka don Pietro Savastano di Gomorra-La Serie), il carattere ce l’ha focoso e ha messo in chiaro che quando gli arbitri vedono squadre a strisce qualcosa scatta nella loro testa. Soprattutto se di fronte c’è il piccolo Empoli. Seicentomila euro spesi sul mercato, tanti giovani, il blocco della promozione confermato in toto a cominciare dal calciatore vetrina: Daniele Rugani, classe ’94, cresciuto in casa e già nel giro dell’Under 21. Ma anche Verdi (’92), Hysaj (’94), Mario Rui (’91) e gli stessi Tonelli (’90) e Pucciarelli (’91). In attacco le chiocce Tavano e Maccarone, finora anche i due più grandi assenti.
Quel tocco di mano dev’essere sembrata un’ingiustizia, tanto da farsi espellere. O forse aveva solo voglia di fumare una sigaretta, cosa che in panchina non si può più fare, ma in tribuna sì. Dicono ne accenda più di Zdenek Zeman. La questione non è verificabile ma, sarà stato il nervoso, martedì sera ne ha consumata più di qualcuna durante il secondo tempo.
Napoletano per caso, toscano per stirpe, ama John Fante ma a differenza di Arturo Bandini davanti alla sua grande decisione, degna della massima attenzione, se continuare a lavorare in banca o allenare a tempo pieno, non ha spento la luce e se n’è andato a letto. Di fronte alla scelta non l’aveva messo la padrona dell’albergo ma il miracolo del Sansovino, portato dall’Eccellenza alla C/2. Di squadre ne ha allenate tante, sui campi di provincia. Si è costruito la fama di uomo dal calcio scientifico, competente e passionale, poche apparizioni in tv, men che meno il giovedì quando dedica tutto il giorno allo studio dei prossimi avversari. Innamorato di un malleabile 4-2-3-1, ha guidato con alterne fortune Sangiovannese, Alessandria, Verona, Sorrento, Pescara, Perugia, Arezzo, Grosseto, ha detto subito addio all’Avellino “perché in certe condizioni non si può allenare, servono programmazione e organizzazione“. E allora ecco l’Empoli, casa dolce casa. Playoff alla prima stagione, promozione alla seconda. Ha tenuto botta per 60 minuti a Udine, lottato con la Roma, rimontato a Cesena e spaventato il Milan. L’ordine non manca, semmai un po’ di qualità soprattutto davanti.
A lui probabilmente verrà un po’ da ridere pensando a quanti dopolavoristi calciatori ha allenato in vita sua. E chissà se gli è mancato il fiato per un attimo quando Pucciarelli ha battuto Abbiati per la seconda volta. Ad averci una cravatta da allenatore borghese avrebbe potuto allentare il nodo. In tuta e t-shirt avrà forse pensato che lui è rimasto sempre quello di Stia, Cavriglia e Antella. E che quel momento se l’era proprio meritato.