Ritrovarsi da un giorno all’altro a svolgere mansioni inferiori e con un salario più basso. Per decisione dell’azienda e senza troppe discussioni. Nel Jobs Act di Matteo Renzi, non c’è solo il “superamento” dell’articolo 18. C’è anche questa novità, caldeggiata dall’Abi, la lobby bancaria, che va a riscrivere l’articolo 13 dello Statuto dei lavoratori, quello che riguarda il divieto di assegnare il dipendente a mansioni inferiori e di ridurne la retribuzione. L’obiettivo, secondo quanto recita l’emendamento governativo alla legge delega, è di contemperare “l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale in caso di processi di riorganizzazione, ristrutturazione o conversione aziendale con l’interesse del lavoratore alla tutela del posto di lavoro, della professionalità e delle condizioni di vita, prevedendo limiti alla modifica dell’inquadramento”.
Non che il problema di riassegnare i lavoratori a nuovi compiti, anche inferiori, sia nuovo. Di accordi di questo tipo, nell’ambito di riorganizzazioni e ristrutturazioni seguite a situazioni di crisi o di aggrazioni, ce ne sono stati diversi finora. Nel mondo bancario in primis. E comunque a parità di salario. Ma secondo il ministro del Lavoro Giuliano Poletti occorre il “sostegno della norma” introdotta nel Jobs act sennò “dopo ci troviamo di fronte a discussioni e conflitti”. Sebbene il contenuto definitivo della norma sia ancora ignoto e verrà fuori solo quando il governo approverà il testo finale, l’ampiezza della delega lascia presumere un punto di arrivo che mette in discussione tanto la contrattazione quanto il mantenimento del livello salariale. C’è insomma “il rischio di una torsione autoritaria”, secondo i senatori della minoranza Pd che hanno presentato degli emendamenti per circoscrivere meglio la delega sul punto in questione, mettendo dei paletti sui livelli salariali.
La nuova norma, in ogni caso, potrebbe avere impatti rilevanti sulle banche, che peraltro sono in attesa di conoscere i risultati degli stress test europei e gli eventuali impatti sui bilanci di quest’anno. Non è un caso, perciò, che dopo aver disdettato con mesi di anticipo il vecchio contratto scaduto a giugno, ora stiano continuando a prendere tempo per il nuovo accordo che riguarda 309mila lavoratori del settore. Un atteggiamento che sta innervosendo non poco i sindacati, a cominciare dalla Fabi, la sigla più importante della categoria, che martedì 23 settembre ha incontrato il ministro Poletti. Ma anche la Fisac-Cgil, la Uilca e la Fiba Cisl hanno minacciato la mobilitazione. L’attendismo della lobby bancaria si spiegherebbe, oltre che con gli stress test, anche con la speranza di riuscire a negoziare il nuovo accordo in un contesto nuovo e più favorevole disegnato dal Jobs Act.
La revisione della disciplina sulle mansioni, con l’eventuale possibilità di demansionamento e contestuale riduzione del salario, è un obiettivo che all’Abi sta a cuore molto più che l’articolo 18. Con la chiusura delle filiali imposta dalle evoluzioni della tecnologia, molti quadri direttivi sono in esubero e un’opzione è di utilizzarli allo sportello, come venditori/consulenti.
Dichiarazioni ufficiali non ve ne sono, ma fonti vicine alla lobby bancaria hanno ammesso a ilfattoquotidiano.it che “l’Abi vede con favore una norma che permetta di attenuare la rigidità attuale sulle mansioni”. Magari senza doversi piegare alla contrattazione di secondo livello. Passaggio, questo, che finora ha permesso di gestire non poche situazioni di esubero in tutti i gruppi del credito. Da Intesa Sanpaolo a Ubi, via Unicredit fino al Banco Popolare. Qui, l’accordo raggiunto a inizio anno sugli esuberi dell’istituto veronese ha previsto anche 640 demansionamenti facoltativi. Ogni quadro potenzialmente “demansionabile”, cioè, ha potuto scegliere se rendersi disponibile per una mansione equivalente (accettando quindi l’eventuale trasferimento) oppure rinunciare alle mansioni da quadro e tornare allo sportello: con uno stipendio maggiorato.