Per la prima volta in oltre tre anni di guerra, gli Stati Uniti sono intervenuti nel conflitto siriano. “L’Isis rappresenta una minaccia globale”sostiene Obama, il regime genocida di Assad, a quanto pare, no. Nell’agosto del 2013, oltre mille persone, già dimenticate, morirono a seguito di un attacco chimico condotto contro alcune località della periferia di Damasco solidali con la rivolta. La famosa linea rossa, quella sull’uso delle armi chimiche, era superata. Obama, pressato dall’opinione pubblica –sconvolta dalle immagini del massacro- e dalla necessità di far seguire alle parole i fatti, ventilò l’ipotesi d’intervenire contro il regime di Damasco.
L’Isis, nell’agosto 2013, era già presente in forze in Siria e stava consolidando le sue posizioni a scapito dei ribelli. Decine di giornalisti, attivisti e scrittori, solidali con la rivoluzione, venivano fatti sparire (ammazzati o sequestrati) dall’Isis. Obama, sotto pressioni internazionali, da parte di Russia e Iran, non intervenne. “La guerra per l’esportazione della democrazia”, come la liquidò (superficialmente) più di uno, fu sventata. Papa Francesco aveva perfino proclamato un digiuno contro l’intervento americano. Ben poche, anzi, nessuna, furono le voci di condanna contro le campagne di bombardamenti aerei condotti dall’aviazione di Assad, quasi che questi aerei (con il loro carico) fossero innocui.
L’intervento Usa in Siria deriva da diversi fattori. Il primo è che dei giornalisti americani sono stati decapitati in mondovisione da uomini vestiti di nero che rappresentano lo spettro degli Usa, i quali temono la jihad ma sembrano impotente di fronte a un regime, quello siriano, mantenuto in vita per procura dall’imperialismo (giusto chiamarlo così) iraniano, avvallato dalla politica neo sovietica di Putin. James Foley e Steven Sotloff non erano certo i primi occidentali a morire in Siria. Prima di loro erano già morti Marie Colvin, uccisa da un colpo di mortaio a Homs insieme al fotografo francese Rémi Ochlik, mentre lasciava un centro media dei ribelli; il medico di nazionalità inglese Abbas Khan, che si era recato in Siria per prestare soccorsi ai feriti, ucciso nelle carceri di Assad. La madre di Khan si recò fin fuori dall’Hotel di Montreux, dove alloggiava la delegazione siriana che partecipava alla conferenza di Ginevra, per chiedere, gridando disperata, perché il regime siriano avesse ucciso il figlio di 32 anni.
La domanda che sorge spontanea è “perché gli Usa non sono intervenuti anche per la Colvin e Khan?” L’intervento americano, oltre che a tutela dei propri interessi in Iraq, è stato fatto per dimostrare che Obama, incapace di qualsiasi azione concreta nella crisi siriana e nel contesto mediorientale, è capace invece di rispondere ed estirpare (anche se non ci riuscirà) l’Isis. Così, Obama prende tempo e il suo successore avrà il compito di sbrogliare la matassa levantina. Chi ha sempre gridato contro l’interventismo americano, definendosi antimperialista o pacifista, sta stranamente muto e accetta che “il più grande nemico” (come è definito in una certa retorica), gli Usa, intervengano in Siria, da sempre considerata da alcuni ambienti l’ultimo pilastro della lotta antimperialista-sionista-ecc..
Altre domande, da porre sul tavolo etico e morale, sono: ci sono solo i jihadisti nelle caserme bombardate o anche le centinaia di prigionieri dell’Isis?, le bombe, quando cadono, sanno non colpire i civili o colpiranno indistintamente?; questa volta, la guerra è cosa buona e giusta perché contro l’Isis anche se nello stesso tempo Assad aumenta i bombardamenti su diverse località del paese?
I civili siriani che moriranno questa notte attendono risposta.