Si chiama "Make in India" il programma con cui il primo ministro punta a far ripartire il Paese. Individuati 25 settori ritenuti appetibili per gli investitori stranieri, dall'automobilistico (2,15 milioni di auto prodotte nel 2013) alle costruzioni (1000 miliardi di dollari di investimenti entro il 2017), dalle risorse minerarie al settore farmaceutico. L'obiettivo: creare almeno 125 mila nuovi posti di lavoro entro i prossimi dodici mesi
Narendra Modi, quattro mesi fa, è stato eletto nuovo primo ministro dell’India con una missione precisa da compiere: far ripartire la locomotiva indiana, rilanciare l’economia, tornare a ritmi di crescita “cinesi”. Nel tradizionale discorso per l’Indipendenza indiana, lo scorso 31 agosto, NaMo aveva anticipato lo slogan “Make in India”, l’appello di venire in India fatto ai dirigenti d’azienda di tutto il globo , portare investimenti, aprire poli industriali e partecipare attivamente alla “rinascita” del paese. Giovedì 25 settembre lo slogan è diventato realtà, una vera e propria campagna governativa di marketing nazionale denominata, appunto, Make in India. Il logo, che ritrae un leone e una serie di ruote o ingranaggi – riferimento ai simboli dell’Imperatore Ashoka – dà la misura dei parallelismi storici che ispirano il nuovo esecutivo: il paese deve tornare a splendere, come all’epoca di Ashoka il Grande (terzo secolo avanti Cristo).
Per farlo, occorre l’aiuto degli investitori stranieri, agevolare la burocrazia interna, snellire i permessi, fare dell’India un terreno fertile e accogliente per le grandi attività di produzione e manifattura mondiali, ricalcando il “modello Gujarat” varato dallo stesso Modi durante il precedente impegno nell’amministrazione dello stato simbolo del progresso industriale. Make in India, presentata dallo stesso premier indiano davanti a una platea di 500 amministratori delegati “globali”, tra cui è spiccato Mukesh Ambani, l’uomo più ricco del paese, a capo del colosso multinazionale Reliance. Ambani, prendendo parola sul palco, ha lodato le doti di Modi – un uomo che “lavora 14 ore al giorno e invita tutti gli indiani a fare altrettanto – e ha promesso la creazione, secondo lo schema di Make in India, di almeno 125 mila nuovi posti di lavoro entro i prossimi dodici mesi.
In sostanza, Make in India è il progetto più ampio e ambizioso presentato dall’esecutivo Modi da quattro mesi a questa parte. Il team delegato alla creazione della campagna ha individuato 25 settori del mercato indiano ritenuti appetibili per gli investitori stranieri, tra cui troviamo il settore automobilistico (2,15 milioni di auto prodotte nel 2013, quarto mercato al mondo entro il 2015), le costruzioni (1000 miliardi di dollari di investimenti entro il 2017), le risorse minerarie (sesta riserva di bauxite al mondo, quinta di ferro), il settore farmaceutico, l’IT, il tessile (secondo produttore mondiale). Nel portale internet lanciato per l’occasione, makeinindia.com, ogni settore è presentato con dovizia di dettagli, dando informazioni insolitamente accessibili – rispetto alla giungla della burocrazia indiana – su come investire, quali le leggi di riferimento, quali le procedure. L’idea portante è: vendete pure in tutto il mondo, ma venite a produrre qui.
La strategia, delineata da Modi durante il suo discorso, prevede un progressivo snellimento delle pratiche burocratiche – al momento, per aprire un’attività in India come straniero, si devono seguire 12 diverse procedure, con tempi decisamente elastici – l’introduzione delle autocertificazioni – per “ristabilire la fiducia tra indiani” – l’abbattimento delle soglie di azionariato per le joint venture straniere – per investire nelle costruzioni e nel settore automobilistico, ad esempio, non serve più un partner indiano, il capitale può essere al 100 per cento straniero – e una serie di sgravi fiscali per chi metterà fondi in settori strategici, come le infrastrutture.
“La mia idea di Fdi (foreign direct investment) è First Develop India“, ha dichiarato Modi, dicendosi personalmente addolorato quando, negli anni scorsi, molti imprenditori frustrati dai labirinti burocratici e dai vincoli legali volevano andarsene dall’India e investire all’estero. Ora, ha spiegato Modi, con le misure messe in campo dal suo governo la tendenza si è invertita, gli industriali indiani vogliono rimanere per contribuire alla crescita del paese, mentre per gli stranieri investire in India è un’opportunità di business reale, visto l’aumento del costo del lavoro in Cina.
“L’India è l’unico paese al mondo che abbia il potere della democrazia, un dividendo demografico importante e un mercato in espansione”, ha chiosato il primo ministro indiano, dando un quadro che, nei suoi intenti, dovrebbe far gola agli imprenditori di mezzo mondo. Il buon esito della campagna Make in India è intrinsecamente legato alla sopravvivenza politica di Narendra Modi, salutato come il campione del capitalismo e degli ambienti business-friendly in contrasto con una precedente amministrazione a tratti giudicata eccessivamente protezionista. Se le aziende di tutto il mondo risponderanno alla sua chiamata alle armi, Modi passerà alla storia come il salvatore della patria dal pantano della crisi economica, che ha costretto il paese a una crescita intorno al 5 per cento lo scorso anno. Troppo poco per la seconda aspirante potenza economica asiatica.