Pare che Renzi&C. abbiano un nuovo progetto: aumentare i salari dei lavoratori dipendenti (privati, per quelli pubblici bisognerà aspettare) inserendo in busta paga fino al 50% del Tfr maturato nell’anno. In questo modo si stimolerebbero i consumi, la produzione e il mercato: finalmente la crescita!
Questa tecnica da carte di credito (divenite titolari di…,comprate quello che volete subito, pagherete dopo con comode rate) mi lascia molto perplesso. In pratica si spenderebbe oggi quello che si è messo da parte (forzatamente, è vero) per quella fase della vita in cui non si è più produttivi. Ma, quando arriveranno le impietose esigenze della vecchiaia, l’alternativa sarà caricare sulla collettività il costo dell’integrazione del reddito di chi non è più in grado di badare a se stesso; oppure abbandonarlo alla sorte della cicala che non ha seguito gli insegnamenti della formica. La stessa tecnica d’altra parte potrebbe essere utilizzata quanto ai prelievi pensionistici.
La filosofia di fondo sarebbe la stessa: busta paga più pingue oggi, economia stimolata, in futuro si vedrà. I cittadini sarebbero quasi sempre d’accordo: un po’ per presunzione (saprei ben io come far fruttare i soldi che mi prende l’Inps), un po’ per superficialità (i soldi mi servono adesso). C’è però un aspetto della questione che (quasi) mi induce ad apprezzare l’iniziativa. Squinzi, il presidente di Confindustria, si è detto preoccupato per le conseguenze sui bilanci delle imprese. In effetti, le imprese con meno di 50 dipendenti possono disporre, se il lavoratore acconsente a lasciarli in azienda, degli accantonamenti per il Tfr. Sembra che, complessivamente, valgano circa 10 miliardi.
Siccome l’interesse generato da queste somme è dell’1,5 % annuo, è evidente che questo “autofinanziamento” è molto più vantaggioso rispetto ai normali canali bancari. E a me è venuto in mente un istituto dell’epoca berlusconiana, ancora operante (come il falso in bilancio e la prescrizione breve, nessuno li voleva e stanno sempre qui): il concordato preventivo, una fantastica procedura inventata per consentire agli imprenditori di liberarsi legalmente dei debiti e ricominciare la stessa attività sotto mentite spoglie. Ho partecipato, ai miei tempi di pm, a molte procedure di questo tipo; facendo del mio meglio per convincere il tribunale a non accoglierle.
Nella maggior parte dei casi l’imprenditore sull’orlo del fallimento, che aveva – tra l’altro – utilizzato e perduto quanto dovuto ai dipendenti per Tfr, proponeva ai creditori di liquidare la società, pagando una minima percentuale dei debiti: meglio che accettiate, altrimenti fallisco e non pago nulla. E, quanto ai dipendenti, potevano scegliere: perdere lavoro e Tfr con il fallimento; o accettare di essere assunti da una nuova società (sempre la stessa anche se – formalmente – facente capo a moglie, figli, suocera e presta-nomi vari) che, liberata dai debiti, avrebbe continuato l’attività e che si sarebbe assunta l’obbligo di pagare, quando il lavoratore fosse andato in pensione, il Tfr già dovuto dall’azienda andata in rovina.
Ecco, la preoccupazione di Squinzi quasi mi induce a pensare che abbiano ragione i lavoratori favorevoli a prendersi i loro soldi: pochi e maledetti, ma subito. Non si sa mai…
il Fatto Quotidiano, 26 Settembre 2014