La storia si ripete. A distanza di dieci anni ci prepariamo a combattere in Medio Oriente un nemico che, secondo i nostri leader, se non sarà fermato adesso presto lo avremo in casa. E come dieci anni fa la politica della paura non viene supportata da prove concrete ma da vaghe e generiche minacce che la stampa raccoglie e divulga senza verificare. E’ bastato che in una conferenza stampa il nuovo governo iracheno affermasse che lo Stato Islamico sta preparando un attacco alla metropolitana di New York per riempire le prime pagine di tutti i quotidiani americani. Nessuno si è preoccupato di supportare con documenti e prove inconfutabili che questa informazione, lanciata abilmente alla stampa internazionale, fosse vera e non si trattasse della solita propaganda per convincere l’opinione pubblica internazionale ad intervenire militarmente in Siria ed Iraq. E già, perché questo è l’obiettivo di tutti i paesi arabi coinvolti nella grande coalizione anti Stato Islamico: usare le truppe occidentali per difendere le oligarchie al potere, dall’Arabia Saudita fino al democratico Iraq.
Come dieci anni fa l’intervento armato non servirà a nulla, anzi, nel lungo periodo sarà controproducente: nell’intera regione ci saranno ancora più armi e più fazioni, più milizie e signori della guerra che si contenderanno ogni centimetro quadrato di territorio. Le guerre vanno combattute in casa, dai popoli coinvolti nel conflitto, non possono essere delegate agli eserciti di nazioni straniere. Quando questo avviene la guerra diventa una realtà permanente, irrisolvibile, perché si trasforma in guerra per procura, la storia ce ne ha mostrato diversi esempi dall’Afghanistan alla Siria.
Altrettanto sbagliato è armare fino ai denti gli eserciti stranieri. La maggior parte degli americani veterani della guerra in Iraq sostengono che aver armato ed forgiato l’esercito di questo Stato non è servito a nulla perché a nessuno andava di combattere. La gente si arruolava per avere uno stipendio, non per difendere una nazione. Ed infatti, quando le forze di coalizione se ne sono andate il nord del paese è ripiombato nella guerra civile. Ma non basta, le armi sono finite in mano agli islamici.
Ad agosto, sotto l’assedio dello Stato Islamico, i curdi iracheni sostenevano di non poterne arginare l’avanzata perché privi di armi tanto moderne come quelle dei jihadisti. Gli americani hanno speso 42 miliardi di dollari per armare gli iracheni, una cifra da capogiro con la quale si potevano risollevare dalla povertà gran parte dei poveri d’America, che fine hanno fatto queste armi? L’esercito dello Stato Islamico ne ha raccolto una buona parte nelle battaglie in Iraq, ad esempio fuori Mosul quando, durante l’assedio della città, i soldati iracheni le hanno abbandonate lungo la strada, insieme alle divise ed agli stivali. Gli americani hanno mandato centinaia di migliaia di soldati ed addestratori militari nel nord dell’Iraq, nel Kurdistan iracheno, per forgiare l’esercito, possibile che chi oggi difende questa regione non abbia armi adeguate e chi le aveva se l’è data a gambe di fronte al nemico?
Eppure a detta del presidente Obama e dei membri della grande coalizione il problema sono gli armamenti, ce ne sono troppo pochi. E’ quanto ci viene detto da Kobane, la città curda al confine tra la Siria e la Turchia, da giorni presa d’assedio dallo Stato Islamico. La milizia curda che insieme ad alcune brigate ribelli dell’esercito libero siriano la difende, sostiene che i bombardamenti aerei americani non aiutano affatto. Lo Stato Islamico continua ad avanzare e venerdì sera era a 5 chilometri dall’ingresso della città.
Avanza perché ha a disposizione armi pesanti Made in Usa, armi che tra l’altro sa usare, mentre i siriani ne sono completamente sprovvisti ed anche se ce le avessero non saprebbero come utilizzarle. Una realtà che tutti conoscono. Ed infatti i rifugiati che da Kobane si riversano come un fiume in piena in Turchia attraversando un confine ormai difficile da distinguere, chiedono l’intervento armato delle truppe occidentali, vogliono che a difenderli siano i soldati americani ed europei non le milizie, i ribelli o la popolazione maschile della città. La conquista di Kobane sarebbe un disastro per la grande coalizione ed una vittoria strategica per lo Stato Islamico.
Ma sarà difficile che una sconfitta di questo tipo spinga chi ci governa ad un ripensamento sulla politica guerrafondaia quale unica risposta alla minaccia dello Stato Islamico. Nessuno suggerirà di lasciar gestire questo conflitto alle nazioni in esso coinvolte, incluse quelle che dal 2011 sponsorizzano le varie fazioni: Iran, Kuwait, Qatar, Arabia Saudita, e così via. Così la storia continuerà, stupidamente e testardamente, a ripetersi.