Con la fine della società dei consumi, il lavoro non serve soltanto a creare merci ma a esprimersi e dare un senso alla propria vita. La crisi che interessa l'economia mondiale spinge a spostare l’accento dalla produzione sulla capacità personale e collettiva di iniziativa e realizzazione
L’Italia è alla fine di un lungo declino storico. Pensare un possibile futuro del lavoro richiede un nuovo modello di sviluppo che esprima capacità di essere produttivi e, allo stesso tempo, garantisca equità sociale. Ci siamo voluti illudere che potesse esistere e durare nel tempo una economia basata esclusivamente sul consumo. Aver spostato il baricentro in questa direzione a poco a poco ha però fatto perdere rilievo al lavoro. Soddisfatti dell’accesso al godimento diffuso che il modello prometteva, i cittadini delle società avanzate hanno perso di vista l’importanza economica, sociale ed esistenziale del lavoro. Non a caso sono almeno due decenni che il lavoro ha cominciato a perdere quota sul valore aggiunto del prodotto. Rivelando così la progressiva marginalizzazione di questa dimensione che rischia di portare alla sua irrilevanza. Di certo, non si può più tornare indietro. Occorre guardare avanti. Ma come? La distruzione del lavoro –che produce disoccupazione di massa – e gli ormai conclamati problemi derivanti da una concentrazione della ricchezza sempre più scandalosa sollecitano una inversione di rotta. Ma rimane difficile capire come.
Le categorie che sono servite per leggere il lavoro nella seconda metà del XX secolo ci appaiono inadeguate. Ad esempio, in molti casi, la distinzione tra lavoro dipendente e autonomo non regge più. Da un lato, perché ci sono dipendenti così precari da essere costretti a una autonomia forzosa; dall’altro, perché ci sono lavoratori autonomi che sono, di fatto, dei dipendenti mascherati, a cui semplicemente non vengono riconosciute le tutele connesse al loro ruolo. E dato che la fabbrica non è più il principale luogo lavorativo, i lavori si sparpagliano nei contesti più disparati, rendendo difficile qualsiasi forma di riconoscimento collettivo. Effetto rafforzato dal fatto che gli orari ruotano sempre più spesso sulle 24 ore e sui sette giorni; o dalle tipologie dei contratti che sono sempre più variegate e “personalizzate”. Per non parlare del lavoro nero (che, nonostante tutto, continua a essere un fenomeno molto rilevante) e di quello criminale, il cui fatturato è sempre in crescita. E ci si mette pure la trasformazione del ciclo di vita e dei rapporti tra i sessi a far aumentare le dimensioni in movimento. Benvenuti nella Babele dei lavori.
Se non riusciamo a dar conto di quello che accade, ciò significa che non abbiamo più le categorie giuste per interpretare il mondo del lavoro. Ad esempio, continuiamo a parlare di agricoltura, industria e terziario. Ma ha ancora senso questa tripartizione? Gran parte del lavoro agricolo è meccanizzato e industrializzato, mentre un’unica categoria, per di più residuale – il terziario – raccoglie i tre quarti di tutte le attività economiche. Non è forse venuto il momento per cercare di introdurre criteri di interpretazione nuovi? Ad esempio, parrebbe utile distinguere tra coloro che si dedicano alla produzione di beni (di qualsiasi specie), coloro che lavorano per la manutenzione del sistema tecno-economico planetario nel quale viviamo, coloro che si occupano della persona e delle sue necessità fisiche e psichiche. Ma qualsiasi categorizzazione vogliamo impiegare, ciò su cui non si può non essere d’accordo è che dobbiamo aggiornare le nostre mappe cognitive. E proprio per questo occorre investire su linee di ricerca che aprano piste interpretative nuove. E chi meglio dei giovani può realizzare questo obiettivo?
Quando Karl Marx prefigurava la futura società comunista, si immaginava un mondo in cui ciascuno avrebbe avuto la possibilità di esprimere al meglio le proprie capacità, nel quadro di una società finalmente liberata dall’ossessione della crescita quantitativa. Da allora, la società comunista non si è realizzata. E tuttavia, ciò non significa che la direzione indicata da Marx non fosse auspicabile. In realtà, è proprio la grande crisi in cui l’economia mondiale è immersa che spinge a ricercare soluzioni innovative capaci di portarci al di là della società dei consumi. Ciò di cui abbiamo bisogno per tornare a far girare l’economia è un cambiamento culturale di fondo che sposti l’accento sulla capacità personale e collettiva di produrre valore. Ciò è possibile a condizione di cambiare il modo di guardare e trattare il lavoro. Non solo semplice merce da scambiare e sfruttare, ma soprattutto espressione della capacità personale di iniziativa, creatività e realizzazione, elemento fondamentale per una economia giusta e una società umana.
Questo è un estratto dell’intervento che Mauro Magatti ha fatto il 25 settembre presso la Palazzina Liberty (Largo Marinai d’Italia) a Milano per l’inaugurazione di Spazio Lavoro, il progetto di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli e Comune di Milano che indaga gli sviluppi del mondo del lavoro. Le ricerche saranno condotte da quattro borsisti reclutati con un apposito bando, le borse di ricerca saranno in crowdfunding. Per info www.fondazionefeltrinelli.it
Di Mauro Magatti
Da Il Fatto Quotidiano del 24 settembre 2014