Nell'inchiesta "I demoni dell'Eden", la giornalista Lydia Cacho offre un racconto meticoloso e ricco di prove delle protezioni di cui godeva Jean Succar Kuri, imprenditore alberghiero e complice della rete criminale che controlla il mercato pedo-pornografico messicano: un atto d’accusa pesantissimo al potere politico e giudiziario del Paese
“Tu lo sai che è il mio vizio, no?, è una stronzata ma non so resistere, e lo so che è un reato e che è proibito, ma poi è così facile, una bambina non ha difese, la convinci in un amen e te la fai. È tutta la vita che lo faccio e a volte sono loro che ci provano con me, perché vogliono restare con me, perché ho fama di essere un buon padre”. Siamo a pagina 109 di I demoni dell’Eden, lo sconvolgente libro-inchiesta della giornalista messicana Lydia Cacho, appena tradotto in Italia da Fandango, e il colpo allo stomaco è duro. Ma necessario per capire chi è, o è stato, il protagonista del libro: Jean Succar Kuri, libanese naturalizzato messicano, ricco imprenditore alberghiero, pedofilo, stupratore, commerciante di bimbi e complice della rete criminale che controlla il mercato pedo-pornografico messicano.
Le parole – immortalate in audio e video in un bar di Cancùn, Messico – furono rivolte da Succar Kuri a Emma, una delle sue vittime, nel giardino di un ristorante elegante. Era il 2003 ed Emma, all’epoca ventenne, era tornata apposta in Messico dagli Stati Uniti per fermare l’orco che aveva violato il suo corpo e la sua innocenza quando aveva solo 13 anni, per impedirgli di fare ad altre bimbe, e in particolare alla sua cuginetta, quello che aveva fatto a lei. Emma indossava una telecamera nascosta, poco lontano alcuni poliziotti e Leidy Campos Vera, vice direttora delle Indagini preliminari, ascoltavano la lunga conversazione durante la quale Succar descriveva con particolari agghiaccianti la sua vita da orco. La ragazza era certa che di lì a poco gli agenti sarebbero intervenuti arrestando il suo aguzzino. Ma non successe niente: né allora né la settimana seguente al secondo appuntamento che aveva ottenuto da lui, come richiesto dagli agenti federali per incastrarlo. Pochi giorni dopo Succar Kuri, allora sessantenne, era uccel di bosco: fuggito grazie alla complicità di suoi sodali nelle alte sfere.
L’anno successivo (2004) l’uomo fu arrestato negli Stati Uniti ed estradato in Messico. Ma ci vollero ancora sette anni prima che venisse condannato a una pena esemplare: 112 anni di carcere. In mezzo, un’indagine difficilissima perché ostacolata dai poteri forti: della politica e dei narcos. Un’indagine che deve molto, quasi tutto, a Lydia Cacho, che nel suo libro ha raccontato come e chi ha ostacolato il corso della giustizia e che per la sua ostinata ricerca della verità è stata illegalmente arrestata e torturata. Ed è una fortuna che ne sia uscita viva e abbia potuto scriverne in un Paese dove i giornalisti ammazzati si contano a decine. Per il Messico, I demoni dell’Eden è stato un libro importante: il racconto meticoloso e ricco di prove documentali delle protezioni di cui godeva Succar, degli errori commessi, più o meno in buonafede, dagli investigatori è un atto d’accusa pesantissimo al potere politico e giudiziario del Paese.
Al di fuori del Messico, più che agli intrighi e alle collusioni di personaggi a noi sconosciuti, l’attenzione va alle parole – testimonianze, registrazioni, interrogatori – delle vittime e degli aguzzini, i quali possono essere a loro volta vittime. È il caso di Gloria, moglie (la seconda) di Succar e madre dei suoi cinque figli, ex sposa bambina (probabilmente a sua volta abusata dall’orco) diventata poi sua complice. La conversazione telefonica (registrata dagli inquirenti) fra lei ed Emma fa rabbrividire: come in una litania la donna continua a chiedere alla ragazza perché voglia fare del male a suo marito che è stato tanto buono con lei, che non le ha mai fatto niente di male; ma insieme minaccia di rendere pubblici i filmini che Succar girava durante i loro incontri.
Fa un certo effetto leggere queste pagine in questi giorni: non ci eravamo ancora ripresi dalla tristissima storia delle due baby-squillo dei Parioli (il processo di primo grado per sfruttatori e clienti si è da poco concluso, con condanne non sempre esemplari), che balza alle cronache un nuovo caso di ragazzine – sempre a Roma, stessa scuola e stesso quartiere – adescate da un fotografo e vendute al miglior offerente. Minorenni ma consenzienti, si dirà. Disposte a vendersi per potersi comprare borse e vestiti firmati, o per spiccare il salto nel mondo dello spettacolo. Ma, in fondo, è solo il contesto che cambia: anche in Messico c’erano ragazzine ansiose di conoscere Johnny (questo era il soprannome di Succar). Perché le pagava – e i soldi servivano per mangiare, non solo per comprare beni voluttuari – ma anche perché molte di loro non avevano un padre e quello era il migliore che potessero trovare.
Di uguale c’è, a Roma come a Cancùn, il commercio immondo di quei giovani corpi e il modus operandi degli orchi, lo stesso a ogni latitudine. Che siano albergatori messicani, fotografi romani o vescovi sudamericani, sono uomini che dalla pedopornografia e dall’abuso sessuale sui minori traggono un godimento personale esente da qualunque interrogativo etico. Come l’ex assessore di Cancùn Gòngora Vera che, secondo la testimonianza del segretario della giunta comunale Eduardo Galaviz, una sera, parlando dello stress cui erano sottoposti come uomini politici, prese il cellulare e disse sorridendo: “Quel che ti serve è farti una scopata con una bambina. Lascia fare a me”.