Per Barack Obama il pericolo costituito dall’Isis sarebbe stato “sottovalutato” negli Stati Uniti, ma i servizi di intelligence non ci stanno. Già l’anno scorso numerosi rapporti top secret degli 007 americani sull’Isis descrivevano un quadro allarmante, ma la Casa Bianca “non dedicò loro attenzione”. E’ questa l’irritata risposta che trapela in forma anonima dagli ambienti dei servizi americani dopo che il presidente Usaera sembrato scaricare su di loro la responsabilità di aver sottovalutato quanto stava avvenendo in Siria. “Il capo della nostra comunità di intelligence James Clapper ha ammesso che hanno sottovalutato ciò che stava succedendo”, aveva detto Obama in una intervista sull’avanzata dell’Isis. “Alcuni di noi – ribatte oggi un alto funzionario dell’ intelligence al New York Times – spingevano quei rapporti”, ma al numero 1.600 di Pennsylvania Avenue “erano occupati con altre crisi”, la questione, per loro, “semplicemente non era una priorità”,

In un’intervista al Washington Post, Clapper aveva effettivamente affermato un paio di settimane fa che l’intelligence Usa aveva sottovalutato “la volontà dell’Isis di combattere”. Ma da molti mesi, nota lo stesso giornale, i segnali che lo Stato islamico stava guadagnando forza erano già evidenti. Alti funzionari avevano espresso allarme anche pubblicamente, ma all’inizio dell’anno Obama ancora definiva i jihadisti dello Stato Islamico come “una squadra di riserve”.

Il 14 novembre 2013, Brett McGurk, vice segretario di Stato per l’Iraq e l’Iran, aveva affermato in un’audizione al Senato che l’Isis “ha annunciato all’inizio dell’anno una campagna di terrore” in Iraq, e “da allora abbiamo visto un aumento fino a 40 attentati al mese”. E aveva aggiunto: “Abbiamo di fronte un vero problema. Non c’è dubbio che l’Isis è un gruppo che sta mettendo radici in Siria e in Iraq”.

Tre mesi dopo, l’11 febbraio 2014, in un’altra audizione in Congresso il generale Michael Flynn, direttore dell’intelligence della Difesa, affermò che l’Isis “probabilmente tenterà nel 2014 di prendere il controllo di territori in Iraq e in Siria per mostrare la sua forza, come ha mostrato di recente a Ramadi e Falluja”, due città irachene in cui le forze Usa hanno combattuto lunghe e particolarmente sanguinose battaglie dopo la cacciata di Saddam Hussein.

A primavera, l’11 maggio, l’allora premier iracheno Nuri al Maliki chiese ufficialmente l’aiuto degli Usa per far fronte all’Isis, ma la Casa Bianca ancora esitava, così come il Congresso. A quel punto, la questione era più politica che militare e di intelligence. L’amministrazione voleva fare pressione su al Maliki affinché desse vita ad un governo più “inclusivo”, dando spazio alla minoranza sunnita. “Era frustrante, perché vedevamo che c’era bisogno di fare di più e di farlo velocemente, ma la sfida era l’approccio lento del governo iracheno”, ha affermato un alto funzionario dell’amministrazione citato in forma anonima dal NYT.

Il 10 giugno è arrivato il punto di svolta, la presa di Mosul, seconda città dell’Iraq, da parte dell’Isis. Da allora Obama ha iniziato a considerare concretamente un intervento diretto, per evitare che anche Baghdad facesse la stessa fine, e all’inizio di agosto sono iniziati i bombardamenti. Il 18 settembre, poi, anche il capo della National Security Agency, ammiraglio Mike Rogers, ha affermato che, “con il senno di poi, vorrei che fossimo stati, ma parlo solo per me e la Nsa, un pò più forti”.

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