Dunque, dopo sei anni di declino, la Francia si ribella all’austerità. Il giorno prima sul Financial Times arriva l’ennesimo virulento attacco tedesco contro Draghi; che segue quelli del ministro delle Finanze Schaeuble e persino della Merkel. Che succede? Semplicemente due placche tettoniche che muovono l’una contro l’altra. Le scosse sono inevitabili.
Da un lato, c’è la deriva nazionalista tedesca, ben descritta da Munchau. Dall’altro lato la Bce – dopo un lento processo iniziato nel 2012 (vedi qui e qui) – con il discorso di Draghi a Jackson Hole si è finalmente allineata alle analisi di quanti fra gli economisti, ormai da molto tempo, richiamano l’attenzione sull’insufficienza della domanda e sulle conseguenze che ha avuto in Europa l’insistenza perniciosa sulla priorità del risanamento dei conti pubblici. Il Fondo Monetario era giunto a questa conclusione già due anni fa e così la pensa il governo americano, come risulta dalla lettura delle memorie del ministro del tesoro Geithner, pubblicate da qualche mese. Ora è finalmente la Bce a cambiare posizione.
A noi (La Malfa e Gawronski: v. Sole 24 Ore di oggi) sembra inutile recriminare sul fatto che questa revisione intervenga tardivamente, quando ormai rilevanti fenomeni di isteresi (distruzione di capacità produttiva) si sono saldamente insediati in Europa e, soprattutto, in Italia. Non si può non riconoscere l’importanza per il futuro di una presa di posizione che proviene dalla maggiore autorità di politica economica dell’area dell’euro.
L’implicazione principale dell’analisi di Draghi è che da sola la politica monetaria non è in grado di garantire la ripresa economica: serve un contributo espansivo sostanziale delle politiche fiscali. Lo ha detto lo stesso Draghi il 4 settembre scorso a Milano, aggiungendo che i trattati europei prevedono già dei margini di flessibilità che possono essere utilizzati in questa circostanza: per agire non è necessaria una loro revisione.
Draghi chiede che i paesi nei quali vi è un margine per politiche fiscali non restrittive – il riferimento è soprattutto alla Germania – facciano politiche espansive tali da trainare la ripresa anche di quei paesi le cui condizioni di finanza pubblica non lasciano margini sufficienti per un’azione nazionale, se non violando gli impegni previsti nei trattati. Questo è il punto cruciale della nuova posizione della Bce.
Per questa ragione a noi sembra indispensabile che, senza polemizzare sui parametri e sulle regole europee, i governi di alcuni paesi – in primis la Francia e l’Italia – raccogliendo l’esplicito invito di Draghi aprano una discussione con le autorità europee e con la Germania per valutare il da farsi nei paesi dove c’è ‘spazio fiscale’. L’Italia potrebbe e dovrebbe rivendicare, come ha detto il Governatore della Banca d’Italia in una recente intervista, di avere fatto in questi anni importanti interventi strutturali, dal mercato del lavoro alle pensioni, al recupero dell’avanzo pubblico di parte corrente. È il momento di raccogliere l’assist di Draghi e di giocare la partita europea in attacco chiedendo alla Germania di fare finalmente la sua parte. Se lo facesse, anche gli altri paesi europei – trovandosi di fronte vincoli esteri e fiscali meno stretti – sarebbero in grado di contribuire alla ripresa economica dentro il quadro dei trattati esistenti.
Draghi sta provando a cambiare la narrativa della crisi: premessa necessaria per una svolta della politica economica, tante volte invocata anche dal G20. Ma la Bce non ha alcuno strumento monetario o giuridico per imporre questa svolta alla Germania: solo un negoziato politico può farlo. Il paradosso è che finora ad accorgersi del senso profondo della rivoluzione di Draghi siano stati soprattutto gli oppositori della svolta, mentre chi dovrebbe cogliere immediatamente la novità di Jackson Hole, resta ancora in bilico fra polemiche generiche sui parametri europei e promesse di attenervisi costi quel che costi.