La Fondazione Bosch riunisce ogni anno 100 giovani leader europei della politica, dell’accademia e delle imprese per discutere un tema specifico. Non so esattamente perché, ma sono stato selezionato. Il tema quest’anno è stato la disoccupazione giovanile, e la sede della conferenza è Barcellona.
Parto un giorno prima dell’inizio, domenica 28, e ne approfitto, nel nome dell’economia della condivisione, per rispolverare il profilo couchsurfing. In un paio d’ore, una coppia di giovani di Girona si offre per un giro in centro e si rende disponibile ad ospitarmi.
Come immaginavo, partecipano alla mobilitazione per il “derecho a dedidir“, un elementare principio di democrazia che in Catalogna sta venendo meno. Vogliono potersi esprimere sulla possibilità di costituirsi in Stato autonomo. Il governo centrale lo ha vietato: il 9 novembre, nonostante il governo catalano abbia convocato una consultazione popolare, secondo Rajoy i catalani devono rimanere a casa.
Passo la serata con loro e Anna mi racconta della madre, ormai anziana, che subito dopo il franchismo era assai impegnata con le comisiones obreras, e credeva in una società più giusta. Oggi, informa la coppia quotidianamente sulla lotta per il diritto all’autodeterminazione. Gli occhi di Anna e Gerardo, 25 e 35 anni, sono quelli di chi lotta per una società più giusta, e contro un sistema che appiattisce tutto e non lascia libertà. In ogni incontro, discussione, sguardo di questa trasferta, quando parlo con i catalani, vedo quella luce.
Il giorno dopo comincia la conferenza. La Fondazione Bosch ha una impostazione germanocentrica e molto legata all’ortodossia di Bruxelles (Sui documenti preparatori della conferenza ho avuto modo di scrivere qui). Un disastro! Il tema è l’occupazione giovanile, ma si sentono solamente discorsi che sarebbero andati bene nel 2007. Sembra che la disoccupazione giovanile non sia un fenomeno di massa, fuori controllo, che ha bisogno di risposte strutturali e straordinarie. Per tutti le vecchie ricette vanno ancora bene: sostegno all’offerta, maggiore flessibilità e “competitività”.
La parte più triste la svolge Anna Diamantopoulou. Ex vice ministro allo sviluppo economico della Grecia, gestì le privatizzazioni di importanti aziende del suo paese a fine anni novanta. Dopo venne chiamata alla Commissione Europea da Prodi per occuparsi di occupazione. È la star della conferenza. Allo stesso tempo è una delle responsabili della crisi in cui viviamo. Ed è del Pse, il partito di Renzi. Ripete concetti vecchissimi e sbagliati come se fosse il vangelo. Si concentra sulla “flessibilità”, la “competitività” e la necessità di maggiore “mobilità” dei lavoratori, con la formazione universitaria e professionale che deve essere più vicina ai bisogni delle “imprese”. Neanche una parola sulle misure di austerità, sulla Banca Centrale Europea e sui vincoli del fiscal compact e del patto di stabilità.
Durante il dibattito finale mi estraneo dalla discussione e li guardo da lontano. Sono dei marziani. Parlano un linguaggio senza senso. Sono dei ‘killer della gioventù’, un po’ come lo fu Monti, che distruggono la stessa idea di politica e di democrazia.
Appena tutto finisce scappo veloce dalla sala, mi cambio e vado ad incontrare alcuni amici in centro.
Scendo a Jaume I, e vengo investito da una marea umana di persone che, sotto la pioggia, protestano perché il governo di Madrid vuole impedire che il 9 novembre, in modo pacifico, il popolo catalano si possa esprimere sul proprio destino. La composizione sociale dei manifestanti è diversa rispetto a quello che vedo di solito in Sardegna: ci sono giovani e giovanissimi, lavoratori sui 40 anni, persone di tutte le età. È una manifestazione di popolo, quasi completamente spontanea. In ognuno di quegli sguardi vedo la stessa voglia di costruire una vita degna di essere vissuta, che passa per lo Stato catalano, e poi chissà. Vedo la vita in quegli occhi. Al contrario dei discorsi degli ultimi due giorni.