Accade a Brescello, nel cuore dell’Emilia, mille chilometri dalla Calabria. Ma questa è una storia di mafia e di cultura mafiosa. Sarà certamente (come dice il sindaco trentenne di Brescello, Marcello Coffrini) “un uomo bene educato”, ma ciò non toglie che Francesco Grande Aracri sia un condannato in via definitiva per fatti di mafia, sezione ‘ndrangheta e appartenenza Cutro, cosca rivale dei Dragone di Isola di Capo Rizzuto, provincia di Crotone. Storie poco educate e molto chiassose delle quali il sindaco emiliano non ha sentito neanche un lontano frastuono, ma accadono proprio intorno a lui e da decenni. Allora è bene ricordare.

La cosa interessante è che, come molti altri esponenti mafiosi residenti nel nord Italia, Grande Aracri vive da 30 anni a Brescello, provincia di Reggio Emilia, paesino sulle sponde del Po e nella memoria collettiva luogo-simbolo di civiltà democratica perché si tratta del paese dove sono stati girati i film su Peppone e don Camillo.

Punto e basta con le citazioni letterarie, perché ci sono una serie di problemi niente affatto letterari dietro la manifestazione di pubblica stima tra un sindaco emiliano e un condannato per mafia calabrese. Alcuni giorni fa, tutto il paese è sceso in piazza per solidarietà con il sindaco e implicitamente con Grande Aracri, uomo forse bene educato, ma condannato per mafia e “imprenditore edile” al quale nel novembre del 2013 la procura distrettuale antimafia di Bologna ha sequestrato beni immobili per la bellezza di tre milioni di euro, beni posseduti in Emilia e “frutto di attività mafiose”. Cosa c’entri questo con la buona educazione, il sindaco Coffrini (avvocato e figlio di avvocato) non riuscirà mai spiegarlo, codici e garantismo alla mano.

 

“Brescello non è mafiosa, qui non c’è mafia”, sostengono il parroco (sì, proprio lui, l’erede di don Camillo) don Evandro e alcuni cittadini brescellesi scesi in piazza a sostegno del sindaco accusato di amicizia con Grande Aracri. Accade a Brescello, non a Corleone, nell’autunno 2014.

“La percezione sociale del pericolo di inquinamento mafioso della società a Reggio Emilia è più basso che in Sicilia”, ha detto preoccupato Francesco Maria Caruso, presidente del tribunale locale. Dunque, ricominciamo da capo, con questa storia che fa tilt con la geografia, il codice penale, la logica e soprattutto con la storia civile di Brescello e della provincia di Reggio Emilia.

Prima di tutto, siamo in una terra civile che tuttavia da almeno un decennio non è esente da infiltrazioni mafiose. A Brescello, non si può essere tanto distratti. Nella relazione del 2007, la Direzione nazionale antimafia scrive a pagina 284: “A Reggio Emilia hanno permesso di affermare un forte radicamento di affiliati alle aggregazioni mafiose di Cutro e Isola di Capo Rizzuto, riconducibili alle cosche Arena-Dragone e Grande Aracri- Nicosia”.

La prima volta che in provincia di Reggio Emilia i cittadini hanno potuto clamorosamente rendersi contro di quella ingombrante presenza risale al 1992, quando un commando mafioso uccise Giuseppe Ruggiero, proprio a Brescello; per quell’omicidio sono stati condannati esponenti del clan Dragone. E poi, andiamo al 1998, il 12 dicembre: in un bar di via Ramazzini, Reggio Emilia, lungo la ferrovia che spacca in due la città, esplode una bomba. Quattro feriti. Regolamento di conti tra i due clan citati dalla Dna, con un preambolo di cinque giorni prima: il 7 dicembre 1998, un uomo nato a Cutro e residente a Reggio Emilia era stato ucciso in città. “Primi segni di una faida in terreno emiliano ma combattuta tra i clan cutresi”, osserva sette anni fa la super procura nazionale antimafia.

Cutro è un paese di migranti calabresi: tre quarti dei suoi abitanti vivono da anni a Reggio Emilia dove sono ormai una comunità radicata. Imprenditori edili, ma non solo. Anche avvocati, consiglieri comunali, di destra e di sinistra e tra loro – in mezzo a un sacco di gente bene educata e perbene – qualche “mela marcia” deve pur annidarsi. A Brescello, per non andare troppo lontano dalla storia poco giareschiana del paese sul Po, c’è un quartiere dove vivono i cutresi e tutti lo chiamano scherzosamente “Cutrello”.

E a Cutrello di Brescello abita proprio Francesco Grande Aracri. Il 19 aprile 2007, la Cassazione ha condannato in via definitiva numerosi appartenenti al clan Grande Aracri per vari reati (omicidio, riciclaggio, associazione mafiosa), ma anche – relazione Dna del 2007, pagina 285 – “per aver partecipato ad attività di riciclaggio nel settore degli appalti, nel comune di Reggio Emilia”. Il processo, iniziato a Reggio Emilia, si chiamava eloquentemente “Edilpiovra”.

Ora, uno potrebbe chiedere una cosa semplice. Caro sindaco e avvocato Coffrini, visto che voi vivete sulla civilissima sponda emiliana del Po, perché non ammetterlo: saranno anche bene educati, ma questi particolari cittadini brescellesi con radici cutresi, condannati in via definitiva per gravissimi fatti, sono vicini alle mafie calabresi, hanno famiglie condannate e sono condannati loro personalmente, hanno forse inquinato l’economia della sua civilissima cittadina e della sua terra.

Fernandel e Gino Cervi (e non inquietiamo Giovannino Guareschi) si rivoltano nelle loro tombe, perché – oltre lei – perfino il parroco in carica ha difeso quel “bravo cattolico” Francesco Grande Aracri che ovviamente frequenta la messa di domenica.

E allora, la mafia non esiste perché fa la questua domenicale nella chiesa dei film su don Camillo?

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