‘O sciomen è grasso, laido, vizioso, sul volto ha stampato anni di fallimenti e di depressioni mai curate. ’O sciomen è Peppe Lanzetta nel film di Guido Lombardi Take five, nelle sale dal 2 ottobre, una storia di disgraziati malacarne che tentano il colpo della vita nella Napoli di oggi. “Ho usato il mio corpo, l’ho esibito per aggiungere alla parola un qualcosa in più. Perché il corpo con i suoi difetti, la pancia che tracima, le occhiaie, i piedi abboffati, diventa uno specchio, e per me una ostentazione di libertà. Sì, libertà rispetto ai canoni estetici imposti da una cultura borghese che ci vuole tutti uguali, tutti fighetti, tutti ricchiuncielli che mangiano insalate scondite e sono perfetti. Io no, sono imperfetto come Napoli”.
Già Napoli, ora che si avvicina ai 60, Peppe Lanzetta può rivedere il suo passato come in uno specchio, l’occasione gli viene offerta dalla ristampa di uno dei suoi tanti libri, Figli di un Bronx minore, uscito vent’anni fa per Feltrinelli e oggi ristampato da CentoAutori. All’epoca il libro scandalizzò per la scrittura e il racconto spietato dei personaggi che popolavano le nuove periferie partenopee. Non più i bassi con la loro eduardiana poesia, ma quartieri – città senza anima, palazzoni, aggregati disumani che non avevano neppure diritto a un nome proprio e si chiamavano con un numero, semplicemente e brutalmente 167.
“Quel libro anticipò non solo un linguaggio, ma la lettura di una realtà tragica e drammatica. Piscinola, Miano, Traiano, Secondigliano, Scampia, San Giovanni a Teduccio, Qualiano: il moderno ventre di Napoli. Periferie-terre di nessuno, luoghi che con un disegno preciso sono stati concepiti come i nuovi ghetti. La borghesia di oggi odia la povertà e odia le periferie. Anche i borghesi napoletani odiano il ventre molle della città. Ricordo che quando fu aperta la metropolitana che da Piscinola- Chiaiano porta al Vomero ci furono proteste. Chi abitava nei quartieri alti voleva difendersi, preservarsi dal male. La mia città è stata sempre classista”.
Napoli, le sue periferie sterminate, i ragazzi che “sognano l’Avana” e trovano la morte. Per caso. I Ciro Esposito, i Davide Bifolco. “Nel 1996, era dicembre, incontrai Luca De Filippo, mi disse che gli era piaciuto Lo scasso, un racconto di un mio libro del 1991, Una vita posdatata. ‘Papà non basta più per raccontare questa città. Io ho scelto te’. Voleva che mettessi in scena quella storia. Mi spaventai, mi giudicai non all’altezza. Ma ora voglio portare sulle scene la città vista con gli occhi dei giovani. Una Napoli devastata dalla crisi, un racconto che, attraverso Pascià, il protagonista, si snoda dalle Quattro giornate fino ad oggi. Un tempo in cui la nottata di Eduardo non è passata ancora. Porterò questo racconto insieme ad altri attori, cantanti e ballerini al Teatro Augusteo da novembre”.
Periferie, cosa è cambiato? “In peggio molto, il degrado è aumentato, l’indifferenza e l’abbandono pure. Dove sono le biblioteche, i cinema, i centri di aggregazione, il lavoro? Lo Stato non può essere un cane antidroga e tre carabinieri. La Chiesa spesso è un prete che ti tocca le cosce. Lo ripeto, il disegno è voluto, Berlusconi e la sua ideologia hanno vinto, la mutazione antropologica si è realizzata, stanno costruendo una gioventù narcotizzata”. Rimpianti? “Nessuno. Io sto qui, ho fatto tante rinunce ma ho deciso di non tradire la mia libertà. Quando Abel Ferrara fece vedere Napoli-Napoli-Napoli a Milos Forman, il regista gli disse di prendermi e portarmi di corsa a New York. In quel momomento io ho vinto, anche se nella Grande Mela non ci sono andato. Che cazzo ci andavo a fare?”.
Restare a Napoli, scrivere, lanciare occhi e anima nei luoghi più dolenti della città. E avere una consapevolezza: “Le periferie, quei luoghi orrendi che impauriscono gli italiani, hanno solo bisogno di amore. E io per amore sono rimasto qui, come il mio amico James Senese, un grandissimo. Anche lui poteva avere soldi e successo all’estero. Non è partito, vive a Miano, a scrivere i suoi blues che ti colpiscono nell’anima. Una volta, anni fa, eravamo insieme a Oristano, platea colta, intellettuali. Gli dissi James canta Carcerato, di Mario Merola… Io stongo carcerato e mamma more… voglio murì pur’io primma ’e stasera. Fu un successo, la gente in piedi ad applaudire. L’arte va diritta al cuore. Anche a quelli che battono in uno scantinato di Rione Traiano”.
Dal Fatto quotidiano del 24 settembre 2014