Non sempre i film di impegno civile brillano per qualità: quanti ne abbiamo visti di mal fatti o noiosi. La Trattativa di Sabina Guzzanti, da oggi nelle sale, è ben fatto e persino divertente. Riesce pure a far ridere di una storia tutta da piangere, ma piena di aspetti grotteschi e paradossali che nascono dal cortocircuito di uno Stato costretto a giustificare i patti con l’Antistato. Merito soprattutto di Sabina, che firma regia, soggetto, sceneggiatura ed è anche interprete di ben quattro personaggi: la narratrice, la professoressa di teologia che interroga Gaspare Spatuzza dopo la crisi mistica, la giornalista e Silvio Berlusconi nello storico incontro a Milano con Dell’Utri, Bontate, Teresi, Di Carlo e Cinà che suggellò l’assunzione di Vittorio Mangano come fattore-tuttofare nella villa di Arcore e il patto tentacolare fra il Biscione e la Piovra. Merito anche delle musiche del premio Oscar Nicola Piovani e della magica fotografia di Daniele Ciprì, oltreché di un cast di attori davvero azzeccati.
Non era facile evitare l’effetto-polpettone, avendo tra le mani una vicenda così intricata che abbraccia oltre vent’anni di storia patria, con flashback fino al dopoguerra, per giunta in parte fatta di verità ormai oggettive, in parte di versioni parziali, in parte di atti giudiziari ancora da vagliare. Sabina aggira tutti gli ostacoli con soluzioni innovative, mai viste prima: un gioco di incastri fra generi narrativi diversi, dal teatro di posa alla fiction, dal documentario al film vero e proprio. L’incipit “siamo un gruppo di lavoratori dello spettacolo” rimanda al corto di Elio Petri con Gian Maria Volonté sul caso Pinelli. Poi parte il racconto, dove ogni fotogramma illumina il precedente e il successivo, dando un senso stringente e una coerenza ferrea a una storia che tutti cercano di confondere e depistare. Dal delitto Lima alle stragi del ’92, dal Ros a casa Ciancimino al papello di Riina, dal furto dell’agenda rossa di Borsellino al depistaggio istituzionale su via D’Amelio, dalla mancata perquisizione del covo di Riina alle bombe del ’93. Poi la prima cambiale pagata dallo Stato: la revoca del 41-bis a 334 mafiosi. E la seconda: il patto Provenzano-Dell’Utri, la nascita di Forza Italia e la fine delle stragi. Quel che segue è una serie di terribili ma tutt’altro che incredibili conseguenze. Il boss confidente Ilardo svela il nascondiglio di Provenzano, che il Ros riesce a non catturare; poi annuncia la decisione di “pentirsi” e raccontare i rapporti Stato-mafia, e viene subito assassinato per una fuga di notizie istituzionale. Si arriva fino alle pressioni del Quirinale nel 2012 per proteggere Mancino. Qualche “licenza registica” gratuita, come la figuraccia di Caselli gabbato dal Ros, si poteva evitare, anche perché la trattativa passò sempre sulla testa dei magistrati, che anzi con la loro caccia quotidiana ai mafiosi furono i principali ostacoli (inconsapevoli) all’immondo patto.
Altre licenze invece, come quando Sabina immagina cosa leggeremmo nell’agenda rossa se fosse ritrovata, sono strepitose. Il risultato complessivo è un gran film che tiene lo spettatore incollato alla sedia dal principio alla fine, con una tensione che nemmeno le scene comiche (Ciancimino jr. che fa il pagliaccio e saluta i pm con un “mitici!” fisso) riescono a stemperare, anzi. Titanico quanto encomiabile lo sforzo della Guzzanti di non rendere troppo simpatici gli uomini di mafia al confronto con certi presunti uomini di Stato: quando Mancino, allora ministro dell’Interno, ripete che nel ’92 non sapeva che faccia avesse Borsellino, o quando Mori si meraviglia per “questo muro contro muro fra Stato e mafia”, viene spontaneo pensare che il guaio dell’Italia non sono tanto i mafiosi che fanno i mafiosi. È lo Stato che non fa lo Stato.
Dal Fatto Quotidiano del 2 ottobre 2014