E’ la sua ultima fatica. Poi, se le riforme volute dal governo Renzi diverranno legge, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro sarà soppresso (Cnel), come prevede il Ddl Boschi che ha abrogato l’articolo della Costituzione che lo istituiva. Ma la ponderosa edizione 2013-2014 del Rapporto sul mercato del lavoro, presentata martedì, è una miniera di dati, analisi e grafici sullo stato di salute dell’occupazione in Italia e nel resto d’Europa. Da cui emergono dati particolarmente interessanti nei giorni dello scontro tra governo e sindacati e all’interno del Pd sul Jobs Act e il reintegro nel posto di lavoro. Innanzitutto, nonostante l’articolo 18, nel nostro Paese licenziare un lavoratore assunto a tempo indeterminato è più facile che in Germania. Quindi l’idea che a scoraggiare gli investitori stranieri sia l’eccessiva rigidità delle regole in materia sembra poco più che una leggenda. Passando al lavoro precario, se è vero che altri Stati europei permettono protezioni inferiori per i lavoratori a termine è anche innegabile che la deregulation fatta negli ultimi 15 anni in Italia sia stata la più sfrenata d’Europa, con la sola eccezione della Grecia.
L’errore dell’Ocse sul Tfr che falsava i dati – Salta all’occhio, innanzitutto, il paragrafo dedicato a “regolamentazione e flessibilità del mercato del lavoro” e all’evoluzione degli indicatori Ocse in materia. Un aspetto che si lega anche al dibattito di queste ore sul Tfr in busta paga, perché, come ricordato da Repubblica qualche giorno fa, fino ai primi anni Duemila i ricercatori dell’organizzazione parigina inserivano (sbagliando) il trattamento di fine rapporto tra gli indennizzi per il licenziamento. Insomma: anziché riconoscerlo per quello che è, cioè un accantonamento di risorse comunque spettanti al lavoratore, lo rubricavano tra i lacci e lacciuoli che rendono più complesso licenziare. Con la conseguenza che l’indicatore della rigidità del mercato del lavoro italiano risultava artificiosamente alto. L’Ocse ha poi rimediato alla svista, arrivando alla conclusione che, nonostante l’articolo 18, il livello di protezione garantito in Italia ai lavoratori dipendenti non è comunque superiore a quello della maggior parte dei Paesi Ue.
Lavoratori permanenti meno protetti di quelli tedeschi – Il rapporto – realizzato da un gruppo di lavoro coordinato dall’ex ministro Tiziano Treu, che del Cnel è consigliere e proprio martedì è stato nominato dal Consiglio dei ministri commissario straordinario dell’Inps – riporta la versione aggiornata al 2013, che tiene quindi conto anche della riforma Fornero. Ed ecco i risultati più rilevanti: “Germania, Francia e Italia si caratterizzano per un grado di regolazione dei rapporti di lavoro molto simile”. Rispetto alla fine degli anni Novanta, infatti, “il nostro Paese ha guadagnato un certo grado di flessibilità” e “nei ranking dell’Ocse il grado di protezione dei rapporti di lavoro in Italia nel 2013 risultava inferiore a quello francese, e prossimo ai livelli riscontrati in Germania e Spagna”. L’indice della protezione dei lavoratori permanenti si piazza, su una scala da 0 a 6 (più è alto più interrompere il rapporto di lavoro è difficile), a 2,51 punti. Sotto il livello tedesco, che è di 2,87 punti, e poco sopra quello francese, a 2,38 punti. Il grado di protezione risulta inoltre in discesa di 0,2 punti rispetto al 2008 perché la legge Fornero, come è noto, ha ristretto i casi in cui il lavoratore licenziato senza giusta causa ha diritto a essere reintegrato nel posto di lavoro. E ha lasciato alla discrezionalità del giudice la decisione sul reintegro dopo un licenziamento per motivi economici o organizzativi.
Con i pacchetti Treu e Biagi impennata della flessibilità. La tutela dei precari è calata così tanto solo in Grecia – Quanto ai lavoratori a termine, il tasso di protezione da noi è a 2 punti, più alto che in Germania (1,13) ma 1,63 punti sotto quello francese. Nel 1998, sottolinea l’Ocse, a Roma e Parigi un precario godeva di un identico livello di tutela (1,63 punti, appunto). Ma in seguito noi abbiamo varato il pacchetto Treu e il pacchetto Biagi, “che hanno previsto nuove e più flessibili forme di impiego o una agevolazione nel ricorso a quelle già esistenti”. Sono stati ampliati i casi in cui è ammesso l’utilizzo di contratti a termine, la durata massima cumulata dei rapporti di lavoro a tempo e le possibilità di rinnovarli. Di qui il drastico calo dell’indice. Un crollo che non si è registrato in nessun altro Paese Ue, fatta eccezione per la Grecia che nei 15 anni tra 1998 e 2013 ha visto l’indicatore scendere da 4,75 a 2,25 punti. Ma nel mezzo ha anche fatto default selettivo sul debito, su richiesta della troika ha dovuto introdurre contratti di lavoro flessibile con salari da 300-400 euro al mese e ha visto il tasso di disoccupazione salire al 28%.
Tasse sul lavoro inique: troppo colpiti i redditi bassi, poche detrazioni per figli a carico – Anche i dati sul cuneo fiscale, infine, smentiscono alcuni luoghi comuni. E’ vero infatti che “la posizione dell’Italia nel contesto internazionale in termini di peso della componente fiscale sul costo del lavoro è tra le meno favorevoli”: la differenza tra esborso per il datore di lavoro e busta paga è pari, per un lavoratore single, al 47,8%, contro una media dell’Europa a 27 Paesi di 41,1 e una media Ocse di 35,9. E la situazione non varia di molto se si considera il cuneo fiscale per un lavoratore con coniuge e due figli a carico. La differenza principale rispetto alla Germania è che lì il “carico famigliare” riduce molto di più, in percentuale, il peso del fisco: se per un single di Berlino il cuneo è vicino al 50%, moglie e prole a carico lo fanno crollare al 33 per cento. Non solo: il Cnel sottolinea che la struttura delle aliquote rende le tasse italiane sul lavoro poco progressive. Ovvero, “il carico sui lavoratori a reddito molto basso è sì inferiore rispetto a quello di un lavoratore con reddito medio, ma non di molto”. Al contrario in Francia e Austria, per esempio, “si osserva un arretramento più pronunciato nel caso di un reddito inferiore. Allo stesso modo in Belgio il cuneo fiscale del lavoratore “medio” è molto più elevato che in Italia, mentre nel caso del lavoratore “povero” il dato è sostanzialmente in linea con il nostro paese”. Una struttura “poco razionale”, sottolinea il Cnel, che andrebbe modificata razionalizzando le detrazioni. Anche perché “la Commissione Europea sottolinea infatti come uno stimolo fiscale indirizzato alla manodopera a reddito basso e scarsamente qualificata costituirebbe un incentivo relativamente più forte dato che queste categorie sono caratterizzate da una elasticità dell’offerta di lavoro elevata, sia dal lato della domanda (in quanto si riduce il costo del lavoro) che dal lato dell’offerta (attraverso l’aumento della retribuzione netta)”.