La settimana prossima, in Germania, ricomincia l’era dell’università (quasi) gratis per tutti: stranieri e fuoricorso inclusi. E’ un ritorno all’antico: l’istruzione universitaria tedesca era sempre stata gratuita, a parte una tassa di circa 250 € a semestre per costi amministrativi che include però un abbonamento per i trasporti pubblici. Nel 2006, la Corte Costituzionale permise agli atenei di imporre tasse sugli studenti, e fu così che alcuni Länder autorizzarono gli atenei ad imporre una tassa aggiuntiva che si aggirava sui mille euro all’anno: una cifra comunque molto bassa in confronto a quella gli atenei italiani, che arrivano a chiedere quasi 3000 € all’anno per gli studenti in ultima fascia ISEE. Ma, con il tempo, un Länder dopo l’altro ha abolito la norma e così, dalla settimana prossima, rimarrà solo la tassa semestrale.

La prima domanda è: come hanno fatto i tedeschi a ritornare sui loro passi? La risposta non mancherà di stupire il lettore italiano: semplicemente, l’idea di far pagare gli studi universitari non è mai andata giù agli elettori tedeschi, che nei sondaggi e con il voto hanno premiato i partiti promotori della loro abolizione. Il portavoce dell’SPD tedesca affermò che “le tasse universitarie impediscono di studiare ai giovani provenienti da famiglie a basso reddito e disgregano la società”: poi, una volta al potere nei Länder, l’SPD ha semplicemente mantenuto la promessa elettorale.

Ma c’è un altro punto sorprendente: la notizia dell’abolizione è stata accolta molto male dai professori. Secondo Holger Fischer, vicepresidente dell’università di Amburgo, “per l’università è una catastrofe”, lamentando che i mancati proventi costringeranno gli atenei a tagliare i fondi destinati alla ricerca.

La spiegazione di questo apparente paradosso riguarda anche l’Italia. Purtroppo, nella maggioranza dei casi il professore universitario considera l’insegnamento alla stregua di un secondo lavoro, faticoso ed ingrato. Quasi sempre, il principale motivo per cui il professore ha seguito la carriera accademica è la ricerca: attività sicuramente molto gratificante e che per di più soddisfa l’infantile voglia di competere e primeggiare di molti. Prova ne sia l’impressionante ammontare di attenzione che gli accademici nostrani dedicano alla valutazione della ricerca, spesso nella speranza di venire certificati come “eccellenti”.

In questa gara gli studenti sono visti, quando va bene, come una zavorra, una sorta di penalizzazione: i luoghi comuni sugli studenti sfaticati, ignoranti e inutili vengono in gran parte proprio dai professori stessi. Quel poco di attività “politica” degli accademici italiani non si preoccupa dei problemi delle tasse universitarie, della sparizione del diritto allo studio o del dilagare del numero chiuso: al contrario, c’è una solida e trasversale maggioranza di professori che ritiene che gli studenti siano ancora troppi!

La lezione che viene dalla Germania è molto importante ed andrebbe colta: per i cittadini i bisogni degli studenti sono prioritari rispetto a quelli della ricerca. Invece, gli allarmi e i proclami lanciati recentemente dagli accademici nostrani sono tutti quanti incentrati sulla ricerca: gli studenti vengono tipicamente ignorati, o peggio menzionati solo per invitarli ad unirsi alle richieste come “massa di manovra”.

Questa situazione non fa altro che rendere vane le rivendicazioni di entrambi. Nel 2010, la grande protesta contro la legge Gelmini scosse l’Italia perché, per la prima volta, ricercatori e studenti si riunirono insieme in incontri ed assemblee per concordare obiettivi e linee di azione comune. A quell’exploit seguì però, soprattutto da parte dei docenti, un triste ripiegamento su se stessi: i frutti di quel dialogo rimasero acerbi e dimenticati.

Subito dopo il movimento del 2010, Renzi criticò la protesta e affermò: “Il Ministro avrebbe dovuto avere il coraggio di chiudere la metà delle università italiane: servono più a mantenere i baroni che a soddisfare le esigenze degli studenti“. Oggi un esiziale taglio di 400 milioni di euro è alle porte: in assenza di un’opinione pubblica evoluta come quella tedesca, l’unica speranza per sventare questa minaccia ricade sulle spalle di professori, ricercatori e studenti.

Per realizzarla, però, noi docenti dobbiamo smentire Renzi: prendendo coscienza della nostre responsabilità nella formazione dei cittadini del futuro, dimostrando un interesse attivo per gli studenti e intraprendendo con loro un dialogo a tutto campo. Se invece continueremo a dir loro “Ripetete con noi:  più soldi alla ricerca!”, per il resto abbandonandoli al proprio destino, allora prepariamoci pure: la dissoluzione finale è in arrivo.

 

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