Su Rai3 il 3 ottobre va in onda uno speciale di teatro/documentario realizzato da Andrea Segre insieme a Marco Paolini e Giuseppe Battiston. Per Stefano Liberti, il terzo autore dell'opera, "prima o poi la percezione di vivere in una società multietnica si impadronirà degli italiani"
“Cosa vedono i migranti? Qual è la loro metà della storia?”. Come il peso dell’acqua è un esperimento che unisce teatro e reportage, in onda il 3 ottobre alle 22.00 su Rai3, nell’anniversario della strage di Lampedusa che nel 2013 ha causato la morte di 366 persone, oltre a circa 20 dispersi. La telecamera ha seguito tre donne. Tre percorsi che le hanno portate ad attraversare il deserto del Sahara, la Libia e arrivare sulle coste italiane. Ed è attraverso i loro occhi che si vuole raccontare l’epopea “dal basso” degli immigrati in Italia. Frutto della collaborazione tra Giuseppe Battiston, Stefano Liberti, Marco Paolini e Andrea Segre, il documentario racconta la nuova migrazione, grazie anche alle narrazioni civili di Paolini e Battiston, che spiegheranno il contesto geopolitico dando spazio anche al punto di vista degli italiani. Che, smarriti, con capiscono cosa stia accadendo.
Nel progetto i migranti sono “soggetti attivi della discussione”, racconta Stefano Liberti. Ed è questa la scommessa: “Non fare parlare gli immigrati in terza serata ma renderli protagonisti di un dialogo con il grande pubblico“. Gli occhi della narrazione, quindi, sono quelli di tre giovani donne che seguono altrettanti filoni di racconto: la memoria del viaggio, l’attraversata del mare, la vita oggi. La prima è Gladys, che ha lasciato il Ghana nel 2006. In poche settimane ha attraversato il deserto, poi la Libia, e infine Lampedusa. “Voleva cercare lavoro – commenta Liberti – Ma cercare lavoro non è abbastanza”, tanto che Gladys è rimasta senza documenti per otto anni. Poi, nel 2014, il tanto agognato permesso di soggiorno.
Accanto alla sua storia, quella di Semhar, in fuga dalla guerra in Libia che dall’Italia ha avuto lo status di rifugiata. “Ma non ha avuto altro – continua Liberti – tanto che Semhar vive in una casa occupata vicino a Roma, senza alcun aiuto”. L’ultima storia è quella di Nasreem, una ragazza siriana “di cui abbiamo visto l’arrivo in Italia” nel 2014. Il documentario segue il “transitare” di questa migrante nel Paese, sola con due figli, nel disperato tentativo di andare da Siracusa in Germania.
“L’Italia continua a percepire il fenomeno degli sbarchi come un’emergenza – continua Liberti – Quindi le nostre politiche sono solo un tentativo di eliminare il problema. Dobbiamo renderci conto che non si tratta di un fenomeno transitorio”. Ma al di là della politica, qual è lo sguardo dei migranti una volta che sbarcano sulle nostre coste? “Chi è in Italia da anni ha difficoltà a sentirsi integrato perché non riesce neppure a fare i documenti. Mentre chi è appena arrivato non capisce le violenze subite – dice Liberti – mentre si ritrova parcheggiato in centri di accoglienza dove dovrebbe stare 3 giorni e invece trascorre 6 mesi“.
“Per oltre dieci anni abbiamo tentato di tutti i modi di chiudere la frontiera mediterranea – proseguono gli autori di Come il peso dell’acqua – C’è chi l’ha fatto con più cautela e chi con più cattiveria, ma lo scopo unico era ridurre il numero di sbarchi, fermare e contenere”. Un orizzonte che ha schiacciato la capacità di ascoltare e capire le scelte di chi arriva. Migranti di prima e seconda generazione, che sono “una fetta della nuova Italia”. “Inutile combattere”, conclude Liberti, perché prima o poi “la percezione di vivere in una società multietnica si impadronirà degli italiani”.