Ammettiamo anche che il 3 ottobre dovesse essere il giorno della memoria, delle corone di fiori deposte in mare sul luogo dell’affondamento per celebrare un rito mediatico di condivisione emotiva. La memoria serve a capire il passato per vivere il futuro, serve quindi se ispiratrice di cambiamento.
È però difficile pensare che fosse questa la miglior forma per tener viva la memoria di una strage impunita. Impunita perché da ottobre 2013 a settembre 2014 i morti sono stati più di 3000, impunita perché si continua a raccontare le migrazioni come un fenomeno senza responsabili, tragedie.
Che si fugga dalle guerre e dalla povertà fa parte del senso comune, molto meno interiorizzato è invece il ruolo dell’Occidente nell’alimentare piuttosto che placare le prime e nell’accentuare la seconda attraverso meccanismi di sfruttamento neocoloniale.
E ancora meno si conosce un’altra causa emergente di questa strage. Nel 2001, il World Disaster Report indicava per la prima volta degrado ambientale e catastrofi naturali come prima causa di sfollamento e migrazioni. Le stime diffuse dall’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati e dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni parlano di 200-250 milioni di profughi ambientali entro il 2050. A mettere in connessione cambiamento climatico, guerre, emigrazioni, povertà e conflitti sociali, più recentemente, è stato il rapporto dell’Intergovernmental panel on climate change.
Non si sostiene che il global warming sia direttamente causa di guerre e conflitti, ma se ne parla come «moltiplicatore di conflittualità»: con la popolazione mondiale in costante crescita e il contemporaneo degrado o esaurimento delle risorse ambientali, siccità, penuria di cibo, alluvioni, inaspriscono la corsa all’accaparramento di risorse creando le condizioni per conflitti, guerre ed emigrazioni.
Il cambiamento climatico è strettamente correlato al modello energetico e non è qui il caso di ricordare i tanti fallimentari proclami riguardo all’abbattimento delle emissioni di Co2. Da ultimo il Climate Change Summit di New York. Basti ricordare che, attualmente, 600 miliardi di dollari a livello europeo sostengono ancora le fonti energetiche fossili contro i 100 delle fonti rinnovabili.
Proprio nei paesi in cui la popolazione dipende direttamente da quei servizi ambientali gratuiti che la natura offre in economie di sussistenza, il legame tra povertà e distruzione delle risorse naturali è acuito dai meccanismi di sfruttamento e deprivazione delle risorse ambientali.
Un esempio su tutti. Recente la notizia dell’inchiesta che ha coinvolto Descalzi, il nuovo amministratore delegato dell’Eni, e l’ex ad Paolo Scaroni per una tangente da oltre 200 milioni di dollari finalizzata ad ottenere concessioni petrolifere al largo della Nigeria.
Estranee al racconto mediatico mainstream sono le conseguenze che il sacrificio del bacino del Niger all’estrazione petrolifera ha per la popolazione. La Nigeria è un caso emblematico per spiegare il legame tra conflitti ambientali e flussi migratori.
Il Delta del Niger è abitato da circa 31 milioni di persone delle quali più del 60% dipende dall’ambiente per la propria sussistenza. Per queste persone l’impatto dell’industria petrolifera portata avanti da Eni oltre che da Shell, Elf, Mobil e Chevron, è devastante. Dal 1960 il petrolio nigeriano ha generato guadagni per circa 600 bilioni di dollari, la maggior parte della popolazione vive però in condizioni di povertà e senza accesso ad acqua pulita ed assistenza sanitaria.
Alle popolazioni indigene l’industria del petrolio restituisce solo inquinamento diffuso causato da fuoriuscite dalle condutture e smaltimento dei residui della lavorazione.
Nelle celebrazioni le cui immagini hanno riempito i teleschermi italiani, non v’è traccia di tutto questo, non v’è traccia di quali siano le motivazioni e le responsabilità che alimentano i flussi migratori. Teatralità, rappresentazione, vuota se non accompagnata dalla volontà di cogliere nella ritualità della memoria l’occasione per riflettere sulle causa di quella strage.
È una memoria che non fa luce, non fa chiarezza, non illumina.
La compassione e la pietà non sempre portano con sé voglia e costruzione di giustizia sociale, né significano sempre solidarietà. Per questo il linguaggio celebrativo del 3 ottobre appare debole, volutamente debole, perché orientato a non andare oltre la patina della costruzione di un immaginario collettivo fatto di sentimenti coinvolgenti ma passivi, spesso non in grado di attivare processi sociali collettivi oltre le lacrime e la commozione.
Le storie dei superstiti della strage del 3 ottobre 2013 parlano invece d’altro, di un necessario operare verso una nuova giustizia sociale, economica, ambientale. Assente in un’Europa che non solo non è stata in grado di superare la dinamica di sfruttamento Nord-Sud del mondo, ma l’ha riprodotta al proprio interno.
Un momento c’è stato, in cui era possibile trovare il senso vero delle testimonianze dei superstiti della strage del 3 ottobre 2013: una solidarietà in grado di tradursi in attivazione sociale ed esigenza di risposte concrete.
La marcia che da piazza Garibaldi è arriva alla Porta di Lampedusa, porta d’Europa, quella che guarda l’Africa, una porta aperta a chi non è mai arrivato, il monumento divenuto simbolo di solidarietà e accoglienza per l’isola, era guidata dai superstiti del 3 ottobre 2013, dai loro canti e dalle loro testimonianze. Quando il corteo è arrivato a destinazione, una pioggia fitta, come si vede raramente sull’isola, ha cominciato a cadere a gocce grosse e rumorose. Via i giornalisti, via la stragrande maggioranza delle persone che erano in marcia. I migranti sono rimasti soli con le rocce dell’isola e il mare. Come se la natura fosse intervenuta a fare pulizia di uno sfondo inadeguato, di facciata. Finita la cerimonia, si raggiunge la riva pietrosa dell’isola per buttare in mare una gerbera, un fiore originariamente diffuso in Africa, Asia e Sud America, paesi di emigrazione, e solo in seguito introdotta in Italia, un simbolo. I lampedusani, quasi del tutto assenti durante la marcia, critici verso un modo di raccontare le cose che poco ha a che fare con la crudezza di quello che molti di loro hanno visto in mare, arrivano adesso: piove a dirotto, sotto questa pioggia non si può lasciare nessuno. È chiaro quale sia l’armonia che lega l’isola, i suoi abitanti, l’uomo e la natura.
Tra i pochi rimasti c’è Costantino Baratta, il 3 ottobre 2013 era a pesca e di migranti ne ha strappati al mare 12, a mani nude, afferrandoli per i vestiti e affondando le dita nella loro pelle, erano coperti del gasolio fuoriuscito dai motori, quando salivano a bordo vomitavano gasolio. Luam sembrava morta, stavano per lasciarla in mare perché avevano detto di pensare ai sopravvissuti, poi ha alzato una mano e Costantino l’ha tirata via dall’acqua insieme agli altri. Lo racconta quasi timidamente come se fosse la cosa più naturale e umana del mondo, lo è! Luam e Costantino, uno accanto all’altra, per capirsi parlano un linguaggio fatto di gesti e sguardi, raccontano la storia più vera in questa giornata di “memoria istituzionale”.
Dei superstiti della strage del 3 ottobre – racconta Costantino – solo uno vive in Italia, gli altri, come Luam che vive in Svezia, sono dispersi in altri paesi europei. In Italia li hanno fatti tornare apposta per questa giornata di celebrazione e questo dice qualcosa su quanto d’artefatto possa esserci stato in questo 3 ottobre.
Non saranno passate neanche due settimane quando scatterà in tutta Europa un’operazione di polizia per fermare, controllare e identificare tutti i migranti clandestini presenti all’interno dei confini Ue. Proprio l’Italia che il 3 ottobre celebra la memoria della strage di Lampedusa sarà alla guida di questa operazione, Mos Maiorum. L’obbiettivo dichiarato è arrestare l’«attraversamento illegale dei confini», secondo il Consiglio Europeo, sarà così possibile «indebolire la capacità organizzativa del crimine organizzato nel favoreggiamento dell’immigrazione illegale». Insomma si arrestano i migranti per colpire i trafficanti di vite, secondo quale logica è poco chiaro. Una sorta di settimana di “caccia al clandestino” che vedrà impegnati 18 mila agenti di polizia.
Fin quando alle migrazioni sarà associato l’elemento del reato o dell’irregolarità non sarà possibile affrontarne la reale natura di emergenza umanitaria e legata al modello di sviluppo, all’ingiustizia sociale, alla iniqua distribuzione di risorse economiche e alla negazione di accesso diffuso a quelle naturali. La domanda da continuare a porre è ancora cosa ci sia di illecito, irregolare, illegale nel muoversi per il mondo.