La crisi è tutta attorno a noi: economica, e quindi sociale e civile (in un paese come il nostro che è esistito praticamente soltanto come fuoriuscita dall’indigenza, affrancamento dalla terra e per il quale, dunque, crisi economica è sinonimo di perdita di identità).
Ma, proprio perché ci pervade così profondamente, raccontarla è impresa tremendamente difficile. Provi ad acciuffarla, e lei ti scappa da ogni lato. Cerchi di definirla, e dopo un passo sconfini nel grottesco o nel patetico. Tenti di guardarla in faccia con coraggio e a pugni chiusi, e sei costretto a misurarti con il dolore sordo, quello dei suicidi o della distruzione delle famiglie, ritrovandoti quindi di fronte all’assenza del drammatico, al dolore schiacciato su se stesso, irraccontabile.
Alberto Schiavone ci riesce. In Nessuna carezza (Baldini e Castoldi, 176 pagine, 14 euro) per tratteggiarla, per dipingerla, per raccontarla, non può che ritornare all’ambiguità di certa letteratura “spietata” del Novecento italiano, e quindi a una secchezza della lingua in cui l’autore è al contempo iperpresente e sempre celato dietro un perturbante tendaggio pesante da palcoscenico, affacciandosi ogni tanto a spaventare il lettore (penso al Balestrini di Vogliamo tutto, o all’Arbasino dei Fratelli d’Italia, mole a parte).
C’è un plot, che continuamente si autoannulla, in Nessuna carezza, continuamente destruttura se stesso, contraddice le aspettative che riesce a generare nel lettore. Veronica e Mauro sono una coppia di trentenni precari e non felici che stanno per diventare genitori. Lei fa la cameriera, lui lavora in un grande magazzino di provincia. Una sera, all’uscita da lavoro, Mauro investe accidentalmente un collega, rompendogli una gamba e provocando così l’assunzione di un altro ragazzo precario chiamato a sostituirlo. Veronica, da allora, non penserà ad altro che a replicare lo schema fortunoso per far assumere Mauro a tempo indeterminato. La vittima designata è Viktor, omone grosso, solitario e silenzioso.
Il romanzo si tinge di nero in una tensione continua, e mai lo sarà. Quello che rimane è proprio quella tensione in cui nessuno si salva consapevolmente. Non rimane niente, neppure il grande magazzino di provincia, alla fine. Nessuno è davvero quello che è, quello che crede di mostrare agli altri, e la vita professionale è un grottesco e ridicolo gioco di ruolo che alla fine davvero non porta a niente e non serve a niente. Ma anche la vita privata è nulla, smembrata nell’idiozia dei gesti quotidiani (“Poi lo guardo su internet” continua a ripetere di ogni cosa uno dei protagonisti).
Eppure ci si salva, forse una sola volta, nel romanzo di Schiavone. E ci si salva quando non ci si guarda, la salvezza arriva inconsapevole. È l’uomo, siamo noi, che roviniamo sempre tutto. Le cose, al fondo dei bicchieri che si consumano numerosi negli squallidi pub di periferia, tutto sommato sono forse semplici.
E la crisi, economica e quindi delle relazioni umane, non è altro che un’occasione che la Storia ha trovato per metterci di fronte alla nostra ridicolezza, alla pochezza dei nostri sogni di gloria e ricchezza ancora sporchi della terra da cui si vogliono affrancare. La crisi ci mostra i nostri sogni senza ali, la nostra assenza di coraggio.