Ma quale Expo, quando mai, la ‘ndrangheta non ci pensa. Troppo “scrusciu” attorno, troppa attenzione. Ora poi che il governo ci ha piazzato sopra addirittura l’ex magistrato anti-casalesi Raffaele Cantone, i boss girano al largo. Il ragionamento, in fondo, è semplice semplice. “Io non è che miro là, io miro che i grossi vanno là e il resto qua resta scoperto”. Con buona pace degli allarmi lanciati dalla politica. E’ il 14 aprile 2011, quando la frase viene catturata dalle microspie della squadra Mobile di Milano. E così se il capo della procura di Milano Edmondo Bruti Liberati lancia l’idea dell’area omogenea per seguire meglio le inchieste sull’Esposizione universale, la mafia calabrese, con capi e comprimari, tira dritto ragionando giorno dopo giorno, lavorando sul territorio lombardo, sulle sue istituzioni locali, pilotando elezioni comunali, tenendo a busta paga funzionari degli uffici tecnici, consiglieri, assessori. E lo fa oggi, dopo arresti e condanne, dopo i maxi-blitz del 2010, dopo una stagione (dal 2008 al 2012) in cui l’antimafia milanese, diretta dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini, ha svelato intrecci mafiosi e complicità politiche.

“Io non è che miro là”, dice Pietro Corapi, imprenditore del mattone calabro-lombardo, originario di Davoli in provincia di Catanzaro. Nel 2012 viene coinvolto nell’indagine Golden Snow. Si tratta di affari locali nel comune di Desio: roba di piccola corruzione per gli appalti della neve. Corapi finisce in carcere assieme a imprenditori dal cognome lombardissimo e ad alcuni funzionari pubblici. L’arresto, però, non ferma la polizia di Milano. Il nome di Corapi così rientra nelle carte dell’operazione Tibet che il 4 marzo 2014 porta in galera 40 persone. In carcere finisce Giuseppe Pensabene, uomo di ‘ndrangheta, che pur con un curriculum criminale di basso livello, si è infilato nel vuoto di potere creato dal blitz del 5 luglio 2010. Pensabene comanda in Brianza, tra Desio e Seveso, mettendo in piedi una banca clandestina per riciclare il denaro dell’usura e il nero degli imprenditori. Nulla di nuovo sotto il sole. Eppure quell’indagine nasce proprio attorno alla figura di Corapi che, indagato e intercettato, non finirà coinvolto negli ordini di cattura firmati dal gip di Milano Simone Luerti.

Lo spunto risale al novembre del 2010 quando il tribunale di Catanzaro ordina il sequestro di beni a Francesco Corapi, padre di Pietro. Sigilli vengono messi a terreni e ville, anche in Lombardia e in particolare nella zona di Bollate, area di influenza della famiglia. Ecco allora quanto scrive la squadra Mobile di Milano: “Pietro Corapi, insieme” a familiari e prestanome “sembra abbia costituito in questo territorio una organizzazione criminale calabrese collegata alla cosca Gallace di Guardavalle (CZ), che pone in essere su questo territorio una serie di attività illecite”. S’indaga, s’intercetta e si scopre che Pietro Corapi, classe ’73, è uomo d’impresa e di conoscenze. Suo cognato, Nicola Grillo, è vicino alla famiglia Mandalari, i boss di Bollate che dopo decenni di affari neri, sono finiti in carcere solo nel 2010. Al contrario di Corapi, Grillo è uomo di cantiere ed è a lui che i tanti padroncini calabresi si rivolgono per poter lavorare.

Ci sono affari di terra e, ipotizza la polizia, di ‘ndrangheta. Ci sono, soprattutto, conoscenze da coltivare nei vari comuni che da Bollate vanno verso Lecco e Como. Ed ecco che le intercettazioni fissano il punto, mentre chiudono il cerchio foto e riprese. Di mezzo c’è sempre Pietro Corapi pizzicato più volte al telefono con Giovanni De Michele (non indagato), ex ingegnere del comune di Solaro in provincia di Milano. Annota la polizia: “Le conversazioni tra i due lasciano presupporre l’esistenza di irregolarità nell’assegnazione dei lavori comunali che vengono assegnati o con bandi di cui Corapi riesce a conoscere le altre offerte in modo tale da presentarne una più bassa, oppure con procedure d’urgenza per scavalcare quelle ordinarie”. Corapi lavora in diversi cantieri pubblici: da Desio a Merate, da Solaro a Nova Milanese potendo contare su contatti all’interno dell’amministrazione.

Non è Expo, naturalmente. Ma è la ‘ndrangheta, ragionano gli investigatori della squadra Mobile, che striscia lenta dentro alle istituzioni locali. E così pochi giorni prima della Pasqua 2011, Corapi è al telefono con il geometra dell’ufficio tecnico del comune di Merate. Dice il funzionario pubblico: “Adesso non ho in giro altra roba, c’è quella gara lì e ti faccio sapere”. Stesso discorso per il comune di Varedo dove Corapi contatto il solito architetto con il quale l’imprenditore si mette d’accordo per un lavoro che ufficialmente costa 20mila euro ma che sarà pagato 56mila.

Rapporti e contatti creano una rete che da Bollate si estende da nord a sud. Si parte dalla famiglia Corapi e si arriva a Santo Maviglia, nato ad Africo ma residente a Monza. Classe ’73, nel 2011 la Dia di Reggio Calabria lo denuncia per associazione mafiosa. I collegamenti con i Corapi, annota la polizia, sono legati ai lavori di movimento terra. Stesso campo di gioco che lega i porta bandiera delle cosche di Guardavalle ai potenti clan di Platì storicamente residenti nei comuni di Corsico e Buccinasco. In particolare i contatti sono con i fratelli Portolesi titolari della Helving srl. Una nota del nucleo provinciale dei Carabinieri comunica che “tale società è totalmente riconducibile a Pietro Paolo Portolesi, la cui coniuge, Maria Calabria, è amministratore unico. La cugina, Elisabetta Calabria, è coniugata con Rosario Musitano, anch’egli riconducibile alle famiglie operanti all’interno delle principali cosche platiote”. Di più: “Secondo un appunto del N.o.r.m di Pavia emerge che Portolesi è stato l’autista e uomo di fiducia di Pasquale Marando (latitante) elemento di prim’ordine e anello di congiunzione della ‘Ndrangheta Calabrese per la gestione degli stupefacenti tra la Colombia e l’talia”.

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